Roberto Benigni senatore a vita. È una proposta seria, che
pur non esclude di fargli qualche pulce con la matita rossa. Non si vede perché
no, chi ci sia oggi meglio di lui, chi abbia al contempo più presa sugli
italiani e più amore per l’Italia. La Costituzione (da lui illustrata lunedì sera nei
principi fondamentali) dice che possono essere nominati senatori a vita
personaggi che abbiano “illustrato la Patria per altissimi meriti
nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”.
La verità vi farà liberi (Gv.8,32). Liberi e forti (don Sturzo). Il nostro mondo ha bisogno di un'inversione a U. Ma di un'inversione che sia conversione. Conversione del cuore. Conversione alla verità. Per essere liberi. E poiché liberi, forti.
martedì 18 dicembre 2012
martedì 11 dicembre 2012
Serve Mario Monti.
10 dicembre 2012
Sentiti ringraziamenti a Pierluigi Bersani. Ieri il
segretario del Partito Democratico e candidato premier della sinistra ha fatto
chiarezza su diverse cose. Forse non era sua intenzione, ma questo è il
risultato. “Ho sempre detto che Mario Monti deve essere ancora utile per il
Paese, per questo sarebbe meglio che rimanesse fuori dalla contesa”, ha
risposto a chi gli ha chiesto cosa ne pensasse di un impegno del premier alle
prossime elezioni. E in un’intervista al Wall Street Journal,, ad una domanda
riguardo alla possibilità che dalle prossime elezioni non si raggiunga una
chiara e stabile maggioranza di governo, Bersani ha risposto che vi sarebbe
un’unica soluzione: “nuove elezioni”, escludendo quindi l’idea di un nuovo
governo tecnico. Insomma, provo a tradurre: il vero avversario della sinistra è
Mario Monti, di fronte al quale la sinistra potrebbe non vincere le elezioni (e
questa ammissione nella situazione attuale è un clamoroso segno di debolezza). Monti
è il vero rivale, quello capace di essere più credibile, più serio, più
competente, di rispondere meglio alle esigenze del Paese e di una vasta area
sociale che in Italia ora non è rappresentata, perché si sente illusa e tradita
da Berlusconi ma certo non si fida della sinistra.
Berlusconi e il PDL sfiduciano l'Italia
7 dicembre 2012
“Oggi siamo qui
a dire che consideriamo conclusa l'esperienza di questo Governo”. Con queste
parole Alfano ha provato ieri a seppellire l’Italia. Ancora una volta il
teatrino delle ombre pidielline ha scelto sempre più nettamente la strada del
populismo e degli interessi personali di pochissimi. Perché deve essere chiaro
che non si tratta neanche della difesa di una classe sociale come la media
borghesia che al contrario oggi è devastata proprio perché dal PDL è stata
illusa e tradita.
Etichette:
berlusconi,
buona politica,
cattolici,
crisi,
governo,
monti,
pdl,
udc
martedì 20 novembre 2012
Cattolici e liberali
Cattolici e liberali sono compatibili? No, secondo la secca
risposta con cui Luca Ricolfi conclude un interessante editoriale su La Stampa a commento della
rinascita del centro. Un editoriale molto acuto e ricco di spunti stimolanti,
con analisi corrette e l’enunciazione di realtà crude ma con cui fare i conti.
Ma al contempo uno scritto che passando dalla parte analitica a quella delle
conclusioni si spinge un po’ oltre il necessario, aggiungendo legittimamente
una sfiducia che però è personale. E il rapporto tra cattolici e liberali ne è
lo specchio: proveremo a vedere come le due realtà non solo siano compatibili,
ma abbiano storicamente collaborato molto molto spesso, e in certi casi
addirittura coincidano.
mercoledì 10 ottobre 2012
Operazioni cieli bui, luci della città
E ritornammo a riveder le stelle. Scrissi questo commento/idea l'8 gennaio del 2010...
Osvaldo
Luci
della città
Riveder
le stelle
La luce è vita. È sviluppo, è sicurezza. In città portare la
luce negli angoli bui vuol dire fare un salto di qualità a zone fino a quel
momento degradate, pericolose. Eppure oggi in città di luce ce n’è forse pure
troppa. E poi capita di trovare zone pubbliche dove l’illuminazione manca per
un periodo prolungato. Problemi di manutenzione, ma a volte anche il sospetto
che si chiuda un occhio sul buio di interi quadranti di lampioni, magari a
rotazione, per risparmiare un po’ di costo dell’energia sugli affannati budget
comunali. Eppure, sorpresa, può succedere di accorgersi che non sono sempre un
dramma i lampioni spenti su qualche tratto di strada o in qualche area che vive
solo di giorno. Anzi, magari si riesce a vedere le stelle, uno spettacolo ormai
dimenticato nelle nostre città. E a volte ci si rende conto che ci sono eccessi
di luce, fonti di illuminazione superflua, doppioni che portano solo
inquinamento luminoso e costano moltissimo alle nostre tasche.
Si possono
razionalizzare
i piani di
illuminazione?
Dovremmo ormai aver capito quanto l’energia sia un bene
prezioso, raro e costoso, il cui spreco non fa bene al pianeta. Allora forse le
città potrebbero ripensare interamente i loro piani di illuminazione, con una
razionalizzazione complessiva. Portare la luce dove serve, per la sicurezza. E
risparmiarla dove si può. Magari in certe strade bastano i fari delle auto. E
in qualche angolo, con la sicurezza garantita, uno sguardo alla Via Lattea può
valere più di qualche lampione. O in certi quartieri la luce può venire dalle
tante insegne accese: ecco, non si potrebbe pensare a un bilanciamento con le
insegne dei negozi? Degli sgravi in cambio dell’illuminazione? È un’idea.
Finché un giorno si potrà sognare di lampioni alimentati a pannelli solari o
piccole pale eoliche, chissà. In fondo si elevano verso il cielo, no?
martedì 26 giugno 2012
Impegno dei cattolici, ora o mai più
Fermento cattolico. L’Europa unita è l’ultimo degli obiettivi alti che il mondo cattolico risvegliato si è posto anche in un grande convegno. Un tema importante inserito nella ben più ampia riflessione in corso. Essere lievito nella società è l’obiettivo teologico, ma nel concreto politico qualcosa è andato storto se dal discorso a Cagliari Papa Benedetto XVI in poi si continua a invocare una maggiore presenza, un maggior impegno e una maggiore incisività dei cattolici nella vita politica italiana.
lunedì 18 giugno 2012
Nigeria, l'indifferenza colpevole sulla persecuzione dei cristiani
La situazione nigeriana è più complessa di quel che sembra, ma ci sono alcuni punti fermi. E questi riguardano più noi che loro. Quello che sta accadendo in Nigeria è una crisi che va letta attraverso più lenti, più livelli. E alla fine si scopre che la cosa più sconvolgente è soprattutto il silenzio dell’occidente che accoglie questi massacri, un silenzio indifferente ma anche complice, un silenzio ignorante ma anche suicida.
lunedì 4 giugno 2012
E se mettessimo insieme le forze sane che condividono la stessa visione?
Possibile che sia in vista un matrimonio di interesse e magari anche d’amore?
Il sistema bipolare è fallito, il leaderismo è stato un danno per il Paese, la politica dei sondaggi e non della lungimiranza ha rovinato l’Italia, l’origine della crisi è nell’aver trascurato i valori etici, il considerare l’avversario politico un nemico da distruggere ad ogni costo ha degradato la politica, la faziosità preconcetta ha fatto male alla Nazione. Un parlamento di nominati è un problema serio, occorre affrontarlo ridando ai cittadini-elettori il potere di scegliere i propri rappresentanti, con una legge elettorale pensata non nei propri interessi ma secondo l’interesse dell’Italia nei prossimi lustri. Magari proporzionale, e con qualche tipo di preferenza. Bisogna ricucire il Paese, lavorare tutti insieme, mettersi al servizio dell’Italia e non considerare le istituzioni al proprio servizio, ripartire dai contenuti. Essere moderati, non nel pensiero, non nell’impegno, ma nel metodo. Ci vuole non leaderismo ma collegialità. E poi nel concreto bisogna mettere al centro la persona e la famiglia, riformare il welfare per renderlo più efficiente e soddisfacente, con risparmi concreti ma non con tagli indiscriminati. Fare una riforma fiscale per alleggerire le tasse, e a questo scopo bisogna rivedere le funzioni stesse dello Stato per renderlo più leggero e ottenere risparmi, puntando prima di tutto sulla sussidiarietà. E via così: aiutare, giovani, donne e puntare su istruzione e ricerca, costruire una Europa più unita e più efficace… Si potrebbe chiedere: chi lo ha detto? È un programma abbastanza dettagliato, che non tutti possono condividere in ogni aspetto, si pensi ai temi etici, al rispetto della vita dal concepimento al termine naturale, si pensi alla libertà di educazione, al bisogno dell’intrapresa privata…
mercoledì 30 maggio 2012
Manifesto delle associazioni cattoliche per la buona politica
Noi pensiamo la politica come spazio privilegiato per la costruzione del bene comune, ovvero del bene di tutti e di ciascuno, e quindi come forma di carità.
Noi sosteniamo la buona politica che promuove la libertà e la giustizia, sa rispettare i valori e interpretare i bisogni del popolo, sa tenere nel giusto equilibrio le dimensioni dei diritti e dei doveri, sa trovare la strada della crescita nell’equità senza lasciare indietro i poveri, sa promuovere la vita e valorizzare la ricchezza come motore dello sviluppo, sa riconoscere il merito e mettere a frutto i talenti.
lunedì 28 maggio 2012
Famiglia risorsa per la società
I media non lo dicono, ma la scienza dimostra un rovesciamento nel pensiero corrente sulla famiglia. La famiglia “tradizionale” si scopre essere una risorsa per la società, essere la strada del futuro. La famiglia rende più felici e più produttivi socialmente. La famiglia fa bene. E non è per nulla uguale a tutte le altre forme di convivenze che si stanno diffondendo. Anzi, la loro diffusione non è la strada per un futuro migliore, ma è il sintomo di una crisi e di una disgregazione. Non sono il superamento della famiglia, ma il fallimento della società. Non è lo Stato, non è il mercato che si adegua allo sviluppo di nuovi modelli di famiglia, ma al contrario sono proprio essi a determinare questo sviluppo negativo tenendo sotto attacco costante una famiglia sempre più penalizzata benché sia determinante a costruire positività per tutta la società. Insomma, l’attacco alla famiglia è la via verso un suicidio sociale. Parola di scienziati.
sabato 21 aprile 2012
Serve un partito per la nazione?
Serve un Partito della nazione? Anzi, la domanda più
corretta è “serve un partito alla nazione”? “un partito per la nazione”? E, se
sì, che tipo di partito serve? Su quali basi? Queste sono domande ineludibili
che emergono con grande forza dalla realtà di fatto. Siamo in mezzo a scosse
telluriche violentissime che investono il mondo, l’Italia, l’economia, il
sistema politico. Quello che è stato finora non sarà più. Serve qualcosa di
nuovo all’altezza del mondo nuovo. Ciò che non è adeguato ai cambiamenti, che
non li comprende, che non li guida, è destinato a rimanere un rottame residuale
del post-terremoto. Quindi la prima cosa da dire con forza è questa: il partito
nuovo non è un’alchimia politica, un inguacchio di palazzo, un giochino
trasformista. È piuttosto la risposta necessaria a un’esigenza, un bisogno che
è fortemente presente nella società. I conservatori oggi sono coloro i quali
negano che il mondo stia cambiando e vorrebbero mantenere tutto come prima.
Sono i sacerdoti della seconda
repubblica, gli osannanti del bipartitismo. Di questo ha bisogno la nazione?
Bisogna stare ai fatti, e i fatti narrano del naufragio della seconda
repubblica, narrano di un mondo globalizzato radicalmente cambiato nei suoi
equilibri economici, sociali, geopolitici, registrano di una terribile
inadeguatezza della classe politica autoreferenziale affogata nel discredito e
negli scandali, di un terribile ritardo di competitività dell’Italia che va
urgentemente colmato. I fatti dicono di una grande emergenza per il Paese che
ha urgenza di seppellire i fallimenti
della seconda repubblica. E dicono che questa esigenza è così sentita e
talmente impellente da rischiare di travolgere tutto mandando tutto all’aria: è
questa l’antipolitica, vale a dire la forza distruttiva che scaturisce da
problemi veri quando manca una classe dirigente capace di incanalare le energie
verso lo sforzo costruttivo. Per questo serve un partito alla nazione. Questo
vuol dire tornare alla prima repubblica? Certamente no, vuol dire costruire la
terza. Vuol dire che non di sacerdoti arroccati in fortini funerari ha bisogno
il Paese, ma di profeti che sappiano guardare avanti. E guardare avanti vuol
dire rinnovamento. Non nuovismo, che rischia di essere solo una delle tante
ondate dello tsunami devastante. Ma di rinnovamento vero. Degli uomini,
certamente, ma più ancora della mentalità, dei meccanismi, delle coscienze.
Occorre guardare il mondo con occhi nuovi. E un elemento determinante di questa
nuova visuale è nell’organizzazione politica, che deve smettere di essere
orientata al leader e agli interessi suoi, delle sue corti e dei suoi cerchi
magici, per tornare ad essere rivolta ai cittadini. Alla nazione serve quindi
un partito che sappia convogliare nella politica, nelle istituzioni, nella
classe dirigente le forze sane del Paese, le energie vitali e morali, le migliori
capacità. Servono forze politiche capaci di esprimere il meglio dell’Italia e
di coordinare tutte le qualità che servono per rilanciare un Paese da riformare
e rilanciare, che ha ancora le potenzialità di essere leader nel mondo ma che
ha oggettivamente bruciato molte delle sue riserve dando il peggio di sé. Un
problema grave, strutturale e profondo che non si può imputare tutto alla
politica: la politica ha comunque rispecchiato una società, un paese, una
classe dirigente che ha imperversato in tutti i campi. La casta esiste, ma è il
punto più visibile di migliaia di caste presenti in Italia, ciascuna arroccata
a difender ei propri privilegi, persino certe caste di “poveri” che non vogliono
mettere in discussione quelle nicchie che si sono accaparrati, figuriamoci le
caste di chi continua a succhiare ricchi benefici ai danni della comunità.
Questo sistema di caste, di evasioni, di arrangiamenti si è profondamente
incrostato e avviluppato, e se vogliamo guardarlo con un certo disincanto ha
persino funzionato per un po’, ha creato un suo equilibrio, dove i privilegi
degli uni si equilibravano con i privilegi degli altri. Ma ora queste
incrostazioni stanno portando a fondo l’Italia, incapace di essere protagonista
in uno scenario più ampio e di crisi globale, dove quell’equilibrio tutto
interno non può più reggere. Occorre avere il coraggio di liberarsi di questi
vincoli che un tempo forse tenevano insieme le cose, oggi le soffocano.
L’antipolitica nasce anche dal senso di soffocamento che questi vincoli
scatenano in ciascuno di noi, unito al senso di panico che naturalmente viene
quando si vede sfilacciare la propria corda col giustificato timore che si
spezzi lasciandoci in campo aperto mentre magari le altre non si spezzano e il
Paese continua a essere protetto da questo gomitolo di privilegi, ma io no. Per
questo l’antipolitica spinta da queste comprensibili ma irrazionali paure
scatena solo un arabbia che vuole incendiare tutto, ma non è in grado di
trovare quel bandolo della matassa che permette di sciogliere i nodi e
rilanciare il paese senza bruciarlo insieme alle corde stesse. Per riuscire in
questo invece occorre una nuova consapevolezza nel Paese, dell’impegno di
tutti, ma anche e soprattutto di una classe dirigente capace di portare avanti
con tenacia ed equità questi mutamenti rivoluzionari. Serve la competenza, il
merito, la partecipazione delle forze sociali, della società civile, di tutti
coloro che osano guardare avanti e possibilmente lontano. E servono anche i
politici, quelli seri, quelli bravi, quelli onesti. Perché fare di tutta l’erba
un fascio è un grave errore. Perché la politica è una tecnica che se non
richiede la nascita di una casta di professionisti esclusivi richiede senz’altro
l’impegno di persone competenti non solo nelle loro materie, ma anche nella
materia della politica in quanto tale. Perché la democrazia ha bisogno di
partiti. Partiti seri, onesti, capaci di essere la cinghia di trasmissione
della partecipazione dei cittadini alla politica. Quindi serve un partito di
questo tipo alla nazione. Serve più che mai. Serve un partito della nazione. Un
partito dei competenti, degli onesti, delle forze sane della società civile,
dei responsabili, di quelli che hanno a cuore il bene comune e la sorte della
nazione. Questo partito necessariamente deve avere anche un’identità, non può
essere un ectoplasma di buone intenzioni. È finita quell’epoca. La politica è
scelta, e questo partito deve essere capace di scegliere. Quindi al limite ben
venga se queste caratteristiche dovessero averle più di un nuovo partito. Ma
noi occupiamoci del nostro campo, che è il più vasto e il più radicato. Per
mobilitare le forze che abbiamo citato, per aggregare, per stimolare, per
chiedere sacrifici, questo partito deve avere una grande ispirazione ideale. Questo
vuol dire che si devono delineare dei valori di riferimento. E questi valori di
riferimento non possono che essere i valori prevalenti degli italiani, quelli
del moderatismo e del dialogo, della responsabilità e dell’impegno, ma anche
più nel dettaglio quelli della economia sociale di mercato e della visione
antropologica dell’uomo di ispirazione cristiana. Che non vuol dire un partito
confessionale o un partito dei cattolici, in senso esclusivo. È anzi necessario
che si tratti di un partito laico ma nel senso più nobile del termine, non
certo di un partito laicista o di un partito radicale di massa che imponga a un
popolo il modo di vedere di una elite. Questo partito deve trovare le sue radici
nella storia dei grandi movimenti popolari italiani, dei grandi leader, della
stessa essenza della nazione ma anche dell’Europa, quei valori che danno senso
e identità al nostro Paese e al nostro impegno. Quei valori di ispirazione
laicamente cristiana su cui possono convergere le migliori personalità del
Paese. Che poi è quello che sta naturalmente succedendo. Casini e Buttiglione
inseguono da lungo tempo questo progetto. Le forze sociali, produttive,
lavorative lo guardano con attenzione. I movimenti politici più intelligenti di
questi giorni, di queste ore non possono non orientarsi in questa direzione,
basti leggere i contenuti del documento presentato ieri da Pisanu e dagli altri
senatori. Certo, anche tra i membri di questo governo ci può essere chi sente
assonanza con questa linea. Perché no? Sono tecnici, nel senso di persone
competenti e non assorbite dalla partitocrazia morente. Ma questo non vuol dire
che non possano avere proprie idee, e che non vogliano nel futuro continuare a
mettere la loro competenza ed esperienza al servizio del Paese. Non c’è nulla
da scandalizzarsi, c’è da rispettare ciascuno ruoli, momenti, percorsi. Ma che
all’Italia serva un partito così, un partito per la nazione, pochi lo possono
mettere in dubbio, forse solo quelli che ne sono l’antitesi, cioè da un lato i
nuovi antipolitici del “tutto all’aria” e dall’altro i vecchi antipolitici
della seconda repubblica. Di questi la nazione non ha bisogno.
lunedì 16 aprile 2012
Io ho un sogno. L'antipolitica no.
Io ho un sogno. L’antipolitica no. I partiti hanno dimenticato come si sogna. Si faccia avanti chi ha un sogno. Un sogno per il bene comune, una visione di una società futura, un progetto per un mondo migliore. Un sogno al cui servizio vale la pena di impegnarsi, contribuire. Questa dovrebbe essere la politica. E poiché non si può costruire da soli la società e non si possono mettere gli infiniti sogni individuali gli uni contro gli altri, allora ecco che serve un’organizzazione della polis, dello spazio comune, cioè della politica. I sogni simili si confrontano, si incontrano, si mettono insieme, e i sognatori uniscono le forze per spiegare i loro sogni ad altri cittadini, per convincerli, coinvolgerli, ottenere la loro adesione a quei sogni. Questo ruolo dovrebbero svolgerlo i partiti, per questo compito esistono: elaborare una visione condivisa del bene comune, un progetto di società, i programmi per il futuro. Invece i partiti hanno abdicato a questo ruolo, e troppi sono entrati in politica per fare carriera, non per impegnarsi nella condivisione di un sogno. I partiti sono diventati qualcosa di diverso. Ci sono i partiti pragmatici, che si adattano alle condizioni e cercano solo di risolvere le questioni trovando di volta in volta il modo di tirare avanti. Forse sono il meno peggio, ma sono comunque qualcosa che non ha grande tensione morale ma solo la necessità di auto perpetuarsi. Se mancano i valori, gli ideali, l’etica, manca il quadro di riferimento all’interno del quale fare politica, orientare alla luce del sole le proprie scelte. Poi ci sono i “catch all party”, detto all’americana, cioè i grandi contenitori politici che vogliono il consenso di tutti, e cercano di arrivare al 51% per sconfiggere gli avversari. Anche questi partiti non sono una tragedia, però sono ben lontani dall’incarnare l’impegno per un sogno: sono partiti mobili, mutevoli, pronti a dire tutto e il contrario di tutto, a cercare di compiacere tutti, a cambiare posizione secondo il mutare delle convenienze, a inseguire i sondaggi, ad avere come unico punto di riferimento l’opinione pubblica. Che garanzia possono dare questi partiti per la costruzione del futuro? E che garanzia di onestà possono dare se rifiutano ogni valore di riferimento, ogni metro di giudizio? Certo, la disonestà può allignare ovunque, ma certo il campo d’azione preferito dagli uomini grigi e dagli opportunisti è il relativismo. Ci sono poi i partiti tribù: i fedeli del capo, del gruppo di potere consolidato, con una banda di seguaci abbastanza stabile e consistente capace di far pesare la propria influenza;che si tratti di un partito personale o di una corrente, anche in non molti in quanto realtà solida e coesa, nella disaffezione generale, sono in grado di portare un potente contributo elettorale e di potere, e di risultare decisivi nelle formazioni delle maggioranza elettorali. Questi gruppi danno una certezza: hanno sempre un prezzo (politico?) per il loro sostegno. E certo non sono partiti che hanno un sogno, una visione, un ideale. Progetti sì, quelli ben definiti, ma difficilmente sono per il bene comune. Magari sono legittimi e qualche volta casualmente utili, ma non è questa la politica che serve all’Italia. Eppure è la politica che prevale, che ben si innesta anche tra le pieghe degli altri modelli di partito e di fare politica che prevalgono oggi. E – va detto forte e chiaro – ben si inserisce anche nel canale dell’antipolitica. L’antipolitica è una cosa seria, che va presa sul serio. I partiti e le istituzioni non devono sottovalutarla. L’antipolitica non è una novità, e in passato spesso ha trionfato, e ha portato ad esiti tragici. Quasi tutte le derive peggiori di tutte le rivoluzioni derivano dall’uscita fuori controllo dell’antipolitica. E così l’instaurarsi dei peggiori regimi, e anche la nascita e lo sviluppo del terrorismo, di cui la cultura dell’antipolitica è il brodo di coltura ideale. Persino al-Qaeda nasce dall’antipolitica, da quella rivolta contro la cattiva politica dei Paesi arabi e islamici. Se tutto va male, se niente funziona, se non si ha voce in capitolo, se si è ridotti in condizioni penose, se non c’è altra strada per cambiare, l’unica soluzione sembra essere scatenare la rabbia, fino anche all’estremo della violenza: se niente va bene, vada tutto all’aria. Questo sentimento estremo va compreso. Non giustificato, ma compreso. Se le cose vanno male, e vanno male, se il potere è scadente, corrotto, distante, e lo è, se il proprio ruolo è percepito come irrilevante e impotente, allora è facile seguire i peggiori istinti per farsi valere. Se poi ci sono “profeti” che gettano benzina sul fuoco al solo scopo di alimentare i peggiori istinti, di cavalcare la rabbia, il gioco è fatto. Ma l’antipolitica ha un difetto genetico terribile e incurabile: è “contro”. L’antipolitica è scontenta di quello che c’è, e magari ha persino ragione, ma al di là di confuse velleità non ha un sogno, non ha un percorso per realizzarlo, non ha capacità di gestire e organizzare le forza, non sa e non può chiedere impegno e sacrifico per realizzarlo. Bisogna capire che l’antipolitica nasce dal giusto orrore per quanto di male ha fatto la politica ultimamente (o meglio, un po’ di antipolitica e molta insoddisfazione sono connaturate alla democrazia, ma il livello di adesso no, quello è patologico). Capire e porre rimedio: questo devono fare i partiti, che sono l’unico vero strumento di democrazia. Devono tornare a fare i partiti, cioè ad essere i canali di partecipazione democratica, avere un sogno, un ideale, una visione di società verso la quale orientarsi. Devono aprire le porte a chi questo sogno condivide, e a chi può dare dei contributi per migliorarlo e per realizzarlo. E devono spiegarlo alla gente, per convincerla. Devono tornare ad essere il canale di partecipazione dei cittadini alla politica. Non nuovismo, ma certo rinnovamento, porte aperte a chi ha voglia e capacità di impegnarsi. Ha chi intende spendere energie per stare tra la gente e spiegare che Italia si vuole. I politici devono essere rivolti ai cittadini, non ai capicordata. Devono essere trasparenti. Devono essere i primi a controllare chi vi entra e a denunciare le mele marce, cosa che si può fare solo attraverso un severo controllo diffuso tra chi partecipa. Questa è la politica, il servizio ai cittadini, e i partiti sono il canale. L’antipolitica ha solo il fascino del fuoco: può anche distruggere cose orribili che lo meritano, ma dopo restano solo ceneri.
giovedì 5 aprile 2012
Calcioscommesse, partite truccate e Pasqua di Resurrezione
"Se Cristo non è risorto vana è la nostra predicazione e vana è anche la vostra fede" (1Cor.14)
Ancora uno scandalo scuote il mondo del calcio. Ancora una volta partite truccate, risultati falsati, interessi illeciti di pochi a determinare l'esito del campionato. Succede spesso, in continuazione negli ultimi decenni. Non so perché non riusciamo a fare a meno di appassionarci (me per primo) a questo sport: ormai i segnali che ci dicono che è più una recita che una competizione ci sono tutti. Ma persino in questo la passione, la fiducia nel bene e la speranza vincono su tutto, nonostante tutto.
Non è di questo che voglio parlare, ma mi sembrava un buono spunto. Uno spunto per parlare di un'altra partita truccata e della vittoria della speranza. Non trovo una metafora migliore. La partita truccata è la nostra vita, ma - sia chiaro - lo è a nostro favore. Nulla a che vedere con predestinazione, destino, oroscopi e altre sciocchezze simili. La partita della vita ce la dobbiamo giocare noi, la dobbiamo sudare fino in fondo. Ma le regole della partita sono strane. C'è un trucco finale, un colpo di scena. Comunque vada, in fondo a tutto risplende la luce della resurrezione. Nella nostra lotta quotidiana le difficoltà sono tante, il buio ci assale, le nubi incombono, la paura ci attanaglia, le preoccupazioni tentano di aprire la strada alla disperazione, il male sembra vincere. Il male morale, il male fisico, il male dell'andamento della nostra vita. Il male a volte, forse spesso, sembra invincibile, sembra il principe di questo mondo. Sembra avere una forza sovrumana, e infatti ce l'ha. Come possiamo noi umani combatterlo? Dobbiamo, e possiamo. Perché c'è una forza ancora superiore che nasce da una tomba vuota. Gesù è risorto, Gesù è Dio, Gesù mette la sua forza al nostro fianco. Al fianco, non al posto nostro. Ma questa forza finale ha vinto la morte, il peccato, il male. Il male gioca la sua partita sulla terra tentando di sopraffarci. Ma un'altra forza lo ha già sconfitto, ha già vinto per noi quella stessa partita. Dobbiamo solo accogliere quella forza, spalancarle le porte. A noi sta di giocare la nostra partita, di confrontarci col male, sapendo di essere inadeguati, ma di essere stati trasformati dall'amore di Cristo in esseri invincibili. Sì, lo so, è un imbroglio, ma quanto mi piace questo imbroglio. Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi? Le tenebre non prevarranno. La scommessa sul nostro futuro è garantita, è sicura. Basta giocare.
Questo è il mio augurio di Pasqua. Un imbroglio di cui non dobbiamo vergognarci. La vita è dura, le difficoltà ci stringono, è inevitabile. Anche quando l'oscurità sembra prevalere (e sappiamo che anche questi sono tempi difficili e di tentazione), auguro a tutti noi di avere bene accesa nel cuore la luce vittoriosa della Resurrezione.
Ancora uno scandalo scuote il mondo del calcio. Ancora una volta partite truccate, risultati falsati, interessi illeciti di pochi a determinare l'esito del campionato. Succede spesso, in continuazione negli ultimi decenni. Non so perché non riusciamo a fare a meno di appassionarci (me per primo) a questo sport: ormai i segnali che ci dicono che è più una recita che una competizione ci sono tutti. Ma persino in questo la passione, la fiducia nel bene e la speranza vincono su tutto, nonostante tutto.
Non è di questo che voglio parlare, ma mi sembrava un buono spunto. Uno spunto per parlare di un'altra partita truccata e della vittoria della speranza. Non trovo una metafora migliore. La partita truccata è la nostra vita, ma - sia chiaro - lo è a nostro favore. Nulla a che vedere con predestinazione, destino, oroscopi e altre sciocchezze simili. La partita della vita ce la dobbiamo giocare noi, la dobbiamo sudare fino in fondo. Ma le regole della partita sono strane. C'è un trucco finale, un colpo di scena. Comunque vada, in fondo a tutto risplende la luce della resurrezione. Nella nostra lotta quotidiana le difficoltà sono tante, il buio ci assale, le nubi incombono, la paura ci attanaglia, le preoccupazioni tentano di aprire la strada alla disperazione, il male sembra vincere. Il male morale, il male fisico, il male dell'andamento della nostra vita. Il male a volte, forse spesso, sembra invincibile, sembra il principe di questo mondo. Sembra avere una forza sovrumana, e infatti ce l'ha. Come possiamo noi umani combatterlo? Dobbiamo, e possiamo. Perché c'è una forza ancora superiore che nasce da una tomba vuota. Gesù è risorto, Gesù è Dio, Gesù mette la sua forza al nostro fianco. Al fianco, non al posto nostro. Ma questa forza finale ha vinto la morte, il peccato, il male. Il male gioca la sua partita sulla terra tentando di sopraffarci. Ma un'altra forza lo ha già sconfitto, ha già vinto per noi quella stessa partita. Dobbiamo solo accogliere quella forza, spalancarle le porte. A noi sta di giocare la nostra partita, di confrontarci col male, sapendo di essere inadeguati, ma di essere stati trasformati dall'amore di Cristo in esseri invincibili. Sì, lo so, è un imbroglio, ma quanto mi piace questo imbroglio. Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi? Le tenebre non prevarranno. La scommessa sul nostro futuro è garantita, è sicura. Basta giocare.
Questo è il mio augurio di Pasqua. Un imbroglio di cui non dobbiamo vergognarci. La vita è dura, le difficoltà ci stringono, è inevitabile. Anche quando l'oscurità sembra prevalere (e sappiamo che anche questi sono tempi difficili e di tentazione), auguro a tutti noi di avere bene accesa nel cuore la luce vittoriosa della Resurrezione.
lunedì 26 marzo 2012
Governo Monti, l'emergenza non è finita, la cura è dolorosa ma salva la vita
“Oltre il governo Monti per l’Italia c’è il baratro. Riflettano attentamente quelli che manovrano per far tornare la vecchia politica. È chiaro che ci sono grandi resistenze da parte di quelli che nella vecchia politica hanno costruito il loro potere e oggi hanno paura di affrontare il vento del cambiamento. Bisogna invece andare avanti. È un momento in cui tutti devono tenere i nervi saldi e privilegiare l’interesse nazionale rispetto agli interessi dei partiti”. Lo ha detto con chiarezza il presidente dell’UDC Rocco Buttiglione, come sempre in perfetta sintonia con Pierferdinando Casini, che a sua volta ripete continuamente che l’emergenza non è finita, i problemi del’Italia non si possono risolvere certo in quattro mesi, e comunque nessuna forza politica è in grado di farlo da sola: “Siamo nel mezzo di un’emergenza che non è finita. In qualche mese questo Governo è riuscito a fare quello che gli altri governi, quelli del mitico bipolarismo, non hanno fatto rinviando i problemi. Noi siamo impegnati dal mattino alla sera a fare gli sminatori per cercare di fare andare avanti tranquillo Monti. C’è chi tira da una parte e chi tira dall’altra, se si continua così il Governo prima o poi entra in crisi sul serio e sarebbe un atto di irresponsabilità allo stato puro”.
Il messaggio sembrerebbe compreso e condiviso, e proprio nelle ultime ore sono arrivate molte conferme in tal senso. A parole, che sono meglio di niente, ma bisognerà vedere i fatti. Il rischio al momento è altissimo. I fattori “destabilizzanti” che offrono sponda alle fazioni più irresponsabili sono molti. Le elezioni amministrative prossime venture, ovviamente, che come ogni campagna elettorale dividono e infuocano il clima, legittimamente, ma pericolosamente. Non si può neanche ignorare il fuoco di fila di certi mass media, che da una parte registrano doverosamente le tensioni esistenti nei partiti, anche quelle sommerse, ma dall’altra a volte giocano in prima persona a drammatizzare la situazione politica, sia per accrescere le loro vendite, sia per l’abitudine ad anni di militanza faziosa, sia perché forse stanchi della sobrietà poco spendibile di un governo serio. Poi c’è la riforma del lavoro, senz’altro tema particolarmente sensibile ma come un po’ tutti quelli che questo governo è costretto a toccare per risanare il Paese. E infine, ultimo ma non ultimo, c’è il grave problema del fatto che adesso inizia ad arrivare sugli italiani il vero impatto delle manovre varate nei mesi e negli anni scorsi. Se cioè si stanno mettendo le basi per la ripresa, gli effetti concreti della crisi è ora che cominciano a impattare, sono le buste paga di questa difficile primavera a scendere, sono i costi della spesa a salire, e adesso arriverà anche l’IMU e probabilmente l’aumento dell’IVA. È normale che gli italiani siano spaventati e preoccupati, e anche arrabbiati. Il punto è che non si può certo dare la colpa della malattia al dottore che cerca di curarla. Eppure questo è lo sport principale più in voga in Italia: facile aspettarsi che tanti politicanti nostalgici della vecchia politica fallimentare ma che ha garantito loro il potere rincorrano il populismo e alimentino gli istinti più bassi dei cittadini. Ma non è questo quello che ci porterà fuori dalla crisi, non è questo quello che devono fare delle forze politiche responsabili. I partiti devono avere il coraggio di fare delle scelte e di assumersi la responsabilità delle scelte che fanno, e l’unica scelta seria in questo momento è quella di proseguire nella politica di riforma e sobrietà del governo Monti. Sta proprio ai partiti responsabili fare il contrario di quello che fanno i politicanti irresponsabili: garantire stabilità al governo e spiegare con tenacia le buone ragioni ai cittadini che hanno tutto il diritto di sentirsi turbati. Per questo bisogna togliere le mine dal cammino del governo. Ma ci sono dei seri nemici al presente, e questi sono il passato e il futuro. Se infatti questo presente serve proprio a garantire un futuro all’Italia, altri invece lavorano in questo presente solo pensando con grande miopia al proprio egoistico futuro. E per quanto riguarda il passato, è dura ammettere che i costi salati che ora si devono pagare sono colpa non dell’esattore di turno, ma di chi negli anni passati ha fatto debiti e ha fatto precipitare la situazione. Ecco dunque che se quei responsabili del passato pensano solo a costruirsi un passaporto per il loro futuro, è inevitabile che a farne le spese saranno il presente, la verità e l’Italia.
Ma la speranza che la responsabilità prevalga è sempre viva. Che ci si renda conto che solo tutte insieme le forze politiche responsabili e riformiste possano affrontare i decennali problemi dell’Italia, il rilancio dell’economia, la costruzione di un quadro istituzionale e politico meglio funzionante, la sfida determinante della competitività.
Lo dicono anche i leader di PD e PDL. Alfano ha confessato di aver messo in conto “di pagare un dazio al governo” in termini di minori consensi. Alla lunga sarà premiato, se terrà la barra dritta. Se invece il suo partito scade in schermaglie per approfittare delle difficoltà del PD e per difendere i propri interessi ad esempio in Rai, se continua a pensare che sia determinante l’asse con la Lega che è su posizioni opposte e demagogiche su tutto quello che riguarda il governo Monti, allora il PDL è responsabile solo a parole, solo a intermittenza, solo quando si discute di provvedimenti che gli convengono, ma si mette di traverso in tutti gli altri casi. E lo stesso discorso in modo speculare vale per il PD. Bersani ieri in direzione ha confermato il sostegno al governo, e ha detto anche di non essere contro la riforma del lavoro ma solo per migliorarla. E lo stesso per le altre riforme, a partire da quella elettorale. “Nessuna persona ragionevole può pensare di buttare giù il Governo, dice D’Alema. Tutto giusto, se il PD avrà la forza e il coraggio di confermarlo nei fatti. Solo il tempo sarà galantuomo. Ma per prima cosa il tempo bisogna darlo all’Italia e quindi al governo Monti. Difficile capire come qualcuno oggi possa pensare di tramare per mandare all’aria tutta la politica di rigore e serietà per prepararsi a ricostruire un governo dell’Italia affidato alla vecchia alleanza PDL-Lega o a quella PD-IDV-SEL.
martedì 13 marzo 2012
Censis, i valori degli italiani: famiglia, religione, bellezza
C’era un altro ennesimo spread che il governo Monti doveva riuscire a ridurre. Oltre agli spread tra titoli di stato italiani e tedeschi, allo spread tra competitività dell’Italia e degli altri Paesi, allo spread tra partiti di cui ha parlatolo stesso Monti, c’è anche uno spread tra politica e società, tra classe dirigente e popolo. È uno spread facile da capire se si pensa all’antipolitica montante e allo scarsissimo indice di fiducia nei partiti. Ma in realtà c’è di più, molto di più. L’antipolitica è solo una delle espressioni più visibili ma anche estreme di questo senso di estraneità. Una certa dose di antipolitica c’è sempre stata ed è forse endemica; oltretutto non c’è da stupirsi se ultimamente sia cresciuta enormemente, non solo per gli ultimi sviluppi e per i troppi agitatori, ma anche per quanto seminato in tanti anni contro il “teatrino della politica” tanto dall’ondata di tangentopoli quanto da quelli che le sono succeduti, dall’estrema sinistra al grillismo ai girotondini, dal berlusconismo al leghismo al feltrismo. Però c’è a mio avviso una questione molto più profonda che per l’ennesima volta risalta dall’indagine Censis per i 150 anni dell’Italia – ma scommetto che sarà pressoché ignorata dalla maggioranza dei mass media. Il punto è che c’è uno spread socio-culturale tra il popolo italiano e la sua classe dirigente, tra come sono gli italiani e come sono rappresentati. C’è una presunta elite italiana molto molto autoreferenziale, che si incontra solo al suo interno, che gareggia a farsi vedere nei soliti giri giusti, che pontifica da ogni pulpito, che decide cosa deve essere detto e cosa no, e questa cerchia ristretta (ma non ristrettissima) non ha alcun contatto con il Paese reale. Eppure questa elite saccente pretende di essere l’unica vera interprete di cosa interessi o non interessi a popolo, di cosa la gente debba occuparsi e di cosa no, di quello in cui deve credere e cosa sia tabù, cosa sia il politicamente corretto da imporre e cosa sia da considerarsi “arretrato”. Questo distacco dalla realtà si evidenzia ogni qual volta i politici possono agire nel totale disinteresse di quello che pensano i cittadini e sono autoreferenziali o al massimo rispondono al capo che dispone del loro destino, ogni qual volta i mass media scelgono un’agenda dei temi importanti guardando alle elucubrazioni dei giornalisti e agli ordini di chi comanda, ogni qual volta il divario economico e sociale tra questi privilegiati e gli altri si allarga a dismisura, ogni volta che televisione e cinema ci presentano come normali e giusti modelli che sono assolutamente minoritari e marginali e spesso persino sgraditi nella società, ogni volta che certi temi “progressisti” (e spesso non è questione di destra o sinistra ma appunto di questo club autoreferenziale trasversale) vengono imposti al dibattito pubblico ma poi alla prova dei fatti si dimostrano quanto di più lontano dal sentimento degli italiani. E si potrebbe continuare.
Ecco, il governo Monti si trova ad avere a che fare anche con questo spread. E non è una cosa facile da affrontare. Però vedremo subito che non solo ne ha i mezzi, ma anche la giusta sintonia. Cominciamo dai problemi: si potrebbe obiettare che questo governo di tecnici, di professori, di gente che guadagna molto sia quanto di più lontano dalla gente comune. In realtà non è così. Certo, ci può essere un problema di comunicazione, di sintonizzazione a livello epidermico (anche perché il rapporto tra governo e cittadini deve comunque faticosamente passare attraverso il filtro di quella cerchia di cui abbiamo parlato e che ovviamente oppone resistenza). Ma a livello più profondo la sintonia è molto forte, e lo dimostrano anche i sondaggi, per quel che conta. Diciamolo, questo governo chiede pesanti sacrifici, e tutti hanno di che lamentarsi. Però poi il livello di consenso, fiducia e credibilità di questo governo resta altissimo tra gli italiani. Perché? Perché appunto la sintonia è più profonda, va oltre i singoli provvedimenti e le cose dell’immediato. Questo è un governo che non guarda al proprio interesse, che non si limita alle questioni di sopravvivenza, che non vuole piacere ad ogni costo; è un governo che si rimbocca le maniche, che affronta i problemi, che cercare di risollevare l’Italia, di dare prospettive di futuro, che si richiama ai valori fondamentali degli italiani. Sappiamo bene che è un governo composito dove non tutti la pensano allo stesso modo su molte cose, e anche su molti valori fondamentali. Ma hanno in comune quella serietà, quella coscienza dei problemi che gli italiani chiedono. Ecco, possiamo dire che non solo questo governo è più in sintonia di altri col sentire degli italiani, e non solo che l’insediamento di questo governo facilita il ritorno a una vicinanza tra classe dirigente e popolo mettendo da parte gli anni di carnevale (da una parte e dall’altra) e favorendo anche il risveglio degli stessi cittadini che non si può negare si fossero comunque abbandonati alla deriva della seconda repubblica. Ma si può forse dire che questo governo è anche il frutto del fatto che nonostante i tentativi di imporre modelli alternativi la corrente principale, a volte sotterranea, che percorre la società italiana è una corrente di valori profondi, di serietà, di impegno. Quando la crisi della elite raggiunge il culmine e lo spread cresce, questa corrente riemerge in superficie, e se le manifestazioni più visibili sono quelle dell’antipolitica, quelle maggioritarie sono invece la richiesta di impegno e serietà diffuse tra gli italiani e che ora sono incarnate dal governo Monti. Non a caso i valori profondi principali degli italiani sono molto molto lontani dalla rappresentazione che ne fanno i media e da quanto incarna un certo ceto politico: famiglia, qualità della vita, religione, bellezza, Italia, cultura, lavoro. Questa è l’Italia vera, quella su cui devono aprire gli occhi politici e giornalisti. Ed è un’Italia che al di là delle sfumature crede in se stessa, nella solidità, nel rilancio, nell’impegno solidale. Attenzione che chi la disegna diversamente, pur avendo torto all’inizio, non riesca alla fine a rovinarla imponendo un modello snaturante. Il governo Monti sembra quello più adatto a riportare l’Italia alla sua vera natura, in modo da farla tornare vincente.
mercoledì 7 marzo 2012
Partito dei tecnici o competenza nella politica?
Il partito dei tecnici prenderebbe il 22 per cento dei voti, porterebbe più gente a votare, e starebbe praticamente alla pari con PD e PDL ai quali toglierebbe consensi. È il risultato di un sondaggio realizzato da Ipr Marketing per Repubblica. Peccato però che il partito dei tecnici non esista, non esisterà e non potrà esistere. E posta in questo modo la vicenda, come spiegheremo, è un controsenso totale. Ma in un altro senso è invece un segnale importante e interessante, e in un certo modo è anche un segnale di speranza.
Andiamo per ordine. Il partito dei tecnici non esiste e non può esistere perché la caratteristica tipica dei partiti (stando alla scienza politica) è quella di presentarsi alle elezioni, la caratteristica dei tecnici è quella di non presentarsi alle elezioni. Un partito sottopone agli elettori un programma, delle idee, dei riferimenti culturali, dei progetti e in base a questi chiede di essere giudicato e scelto e quindi di avere il consenso necessario a rappresentare una fetta di società. Per i tecnici è esattamente il contrario: non svolgono un ruolo di rappresentanza, ma viene richiesta per un periodo limitato la loro competenza specifica che devono prestare nel modo più asettico possibile e più distaccato dalle parti politiche e dalle fazioni. Certo, sappiamo tutti che anche i tecnici hanno giustamente e legittimamente le loro idee politiche e le loro aree culturali di provenienza (e comunque nel caso del governo Monti le idee politiche sono notoriamente variegate tanto da rendere comunque improbabile una convergenza in un unico partito politico), ma nel loro lavoro è caratteristicamente chiesto loro di tenere da parte questa loro visione personale e di limitarsi ad applicare le loro competenze. Al contrario ai politici è richiesto proprio di agire in conseguenza delle loro idee e delle loro visioni che sono state approvate dagli elettori.
Questo esclude che ci possa essere di nuovo un governo tecnico nella prossima legislatura? No, anche se appare improbabile (più probabile semmai una grande coalizione con apporti tecnici). Sarebbe però, come ora, un governo di tecnici nominato dai partiti politici. Domanda solo apparentemente più complessa: questo esclude che gli attuali tecnici si candidino alle elezioni? Certamente no. Come tutti i cittadini hanno pieni diritti politici. Il fatto è che quando dovessero scegliere di entrare in politica non sarebbero più tecnici ma politici, in quanto avranno scelto una parte, una linea, delle idee, e le avranno sottoposte al giudizio degli elettori.
E qui veniamo agli spunti di riflessione positivi. È un gran bene che in Italia ci sia sete di competenza. L’unica cosa vera che indica il sondaggio è che gli italiani sono stanchi di questo sistema di partiti, di questa politica, e vogliono un rinnovamento e un rinnovamento che sia basato sulla competenza. Lo stesso sondaggio dice che se i tecnici si presentassero alle elezioni l’astensionismo calerebbe di quindici punti percentuali. Non è poco.
E non è neanche qualcosa di molto diverso di quello cha da anni va dicendo l’UDC. La politica del bipolarismo muscolare, dei parlamentari nominati in base alla fedeltà al capo, la politica del pro o contro pregiudiziali è fallita e ha portato l’Italia sull’orlo del baratro. Occorre recuperare una politica dei contenuti, delle competenze. Una politica che tenga ben vivo il cordone ombelicale con la società civile. Una politica che sappia assumersi le responsabilità di essere sovrana sulle scelte ma al contempo riconosca i propri limiti, soprattutto di fronte alla logica, alla matematica, all’etica. I partiti devono rinnovarsi in questa direzione. Altrimenti moriranno. Verranno sostituiti da altri partiti, o da altre realtà non ben definibili e per questo non necessariamente migliori per il funzionamento della democrazia. I partiti oggi come oggi sono molto screditati davanti all’opinione pubblica, ma questo anche perché hanno perso la loro capacità di essere la cinghia di trasmissione tra i cittadini e le istituzioni. E di essere guida responsabile, invece che limitarsi a inseguire il consenso e magari i sondaggi di opinione. Se dici agli italiani quello che vogliono sentirsi dire, magari li fai contenti sul momento, ma alla lunga non risolvi ma aggravi i problemi, non svolgi il tuo ruolo di classe dirigente, e prima o poi ci si accorge che sei inutile. Se invece hai idee e competenze da portare avanti e fai la fatica di spiegarle e mostri i risultati, puoi anche non accontentare tutti però svolgi la tua missione e ottieni il credito per la rappresentanza. Quindi questo devono fare i partiti, inserendo competenze e idee al loro interno, e rappresentanti tecnici che non sono profeti infallibili ma politici con una visione supportata da capacità ed esperienza. E ancor più i partiti devono quindi aprirsi a un rapporto osmotico con la società civile, con le realtà vitali del Paese, le realtà produttive, del mondo del lavoro, dell’associazionismo, del volontariato, del mondo cattolico. Esattamente il progetto che persegue da tempo l’UDC ma che ora deve mettere in pratica. Questo è l’unico partito dei tecnici che può funzionare e che gli italiani aspettano. Se non lo farà quel Terzo Polo che ha prima di tutti compreso, avviato e sostenuto questo progetto, rischia che finisca per farlo qualcun altro.
martedì 28 febbraio 2012
ICI e scuole cattoliche: ci sarà un motivo perché si chiamano paritarie?
Le scuole che saranno esenti dall’Imu saranno quelle che “svolgono la propria attività con modalità concretamente ed effettivamente non commerciali”. Vale a dire, per provare a spiegare nel concreto e in modo semplice, quelle che investiranno l’avanzo di bilancio, cioè l’utile, per migliorare l’offerta scolastica, il servizio di istruzione. Quindi non a fine di lucro. Una norma che verrà stabilita per legge. Lo ha spiegato ieri il premier Mario Monti in commissione Industria del Senato. Questa, ha detto Monti, è la risposta “chiara e inequivoca”. La materia dell’Ici sulla Chiesa “non era facile, forse non era stata affrontata per molti anni. Spero di essere riuscito a definire questa delicata materia in modo che la riponga, in futuro, al riparo da qualsiasi polemica su una interpretazione distorta”. Da parte del Governo e delle istituzioni c’è “la piena e convinta determinazione a considerare il problema dell’esatta incidenza” dell’Imu sulle Chiesta “senza
pregiudizi o approcci ideologici di qualsiasi derivazione”.
E sull’approccio ideologico alla tematica occorre riflettere per un Paese civile. Servizio pubblico. Lo Stato lo deve assicurare. E mantenere. Per questo servono le tasse. Ma se le tasse vanno a colpire il servizio pubblico danneggiandolo, diminuendone i servizi e accrescendo le spese dello Stato tanto che i denari da spendere dopo un provvedimento finanziario sono molto superiori a quelli che da quel provvedimento si intende recuperare, allora è un non-senso. E questo cortocircuito è quello che rischiava di diventare protagonista della nuova situazione sull’applicabilità dell’IMU ai beni - diciamo così ma vedremo che è inesatto - “religiosi”. La questione descritta dai mass media come quella dell’ICI della Chiesa è (potrebbe essere, ma speriamo che non lo sarà) in realtà una questione ben più grave, perché riguarda il sistema dell’educazione, è un attacco al sistema dell’istruzione. Vediamo perché. Primo: la Chiesa l’Ici la paga eccome. Basti pensare che il secondo e terzo contribuente a Roma sono l’APSA e Propaganda Fide. Inoltre su tutta la galassia delle esenzioni quella riferibile al mondo cattolico è solo una parte, che diventa una parte minima se si fa riferimento alle realtà ecclesiali. Questa era già la situazione a prima delle ultime polemiche, quelle sì ancora ideologiche. Ci poteva essere qualche abuso? Certo, come in tutte le attività umane, ma la Conferenza Episcopale si è sempre schierata dalla parte dello Stato e del pagamento delle tasse quando dovute, invitando a condurre accertamenti verso eventuali scorrettezze da sanzionare. Esisteva però anche una parte di potenziali equivoci, dovuta a quella famosa formula “non esclusivamente” che da ogni parte si è riconosciuto meritevole di ulteriori chiarimenti. E a quei chiarimenti il governo ha lavorato. Quali saranno gli effetti concreti e i confini della misura è ancora un po’ da verificare, visto che il provvedimento è in corso d’opera. Però qualche indicazione inizia a emergere con maggior chiarezza. E qui è arrivato il momento di entrare nello specifico. Con un rapido accenno alla questione del no profit: assurdo tassare le realtà sociali e benefiche, l’esempio classico è quello delle mense per i poveri. Ma veniamo al nodo delle scuole. Non ci stupisce scoprire che in questi giorni ci sia stato, più da parte della stampa e dei soliti noti che dal governo, un attacco ideologico e pregiudiziale. Un attacco ricco di disinformazione, controsensi e irrazionalità, come del resto accade da decenni in tutte le manifestazioni contro la scuola cattolica. Bisogna intanto ricordare che cattoliche sono meno della metà delle scuole private, e che per quanto riguarda almeno le scuole cattoliche non esiste più il concetto di scuola privata, ma di servizio pubblico di iniziativa privata, cioè le scuole paritarie, che fanno parte integrante del sistema nazionale di istruzione. Per deideologizzare la vicenda bisognerebbe tener sempre presenti alcuni dati ufficiali e sempre palesemente a disposizione di tutti, ma sempre tenacemente ignorati in questi ragionamenti: le scuole paritarie del servizio pubblico d’istruzione fanno scuola a un milione di ragazzi, ma cosa ancor più importante per questo tipo di ragionamento, a fronte dei tanto avversati 500 milioni scarsi di finanziamento che lo Stato offre, le scuole paritarie fanno risparmiare annualmente allo Stato 6 miliardi e 250 milioni. Senza contare che le scuole pubbliche già costano allo Stato 44 miliardi. Ecco, 6 miliardi e rotti risparmiati a fronte di pochi, pochissimi spiccioli racimolati con l’IMU: ha senso? E se l’imposizione ideologica dell’Imu voluta da alcuni fosse così pesante per le scuole paritarie da portare – come già ventilato da più parti – alla loro chiusura, quale vantaggio ne avrebbe lo Stato, chiamato a tirar fuori strutture e servizi e più di sei miliardi per fornire l’obbligatorio servizio dell’istruzione a una enorme quantità di studenti italiani?
Tutto questo quindi fuori di ogni ideologia ma solo su calcoli economici. Senza scadere nell’ideologia si potrebbe poi entrare nel merito della qualità del servizio. La critica alle scuole paritarie come scuole dei ricchi è totalmente infondata e da rovesciare: basta fare in modo non di penalizzarle ma al contrario di favorire la partecipazione degli studenti a quelle scuole. Il tutto inserito in un contesto che garantisce costituzionalmente la libertà di educazione. E richiamando la fondamentale centralità dell’educazione e dell’istruzione: non è solo il Papa Benedetto XVI a richiamare costantemente la gravità dell’emergenza educativa, nella formazione di persone e cittadini prima ancora che di cristiani. È anche la società a lamentare la crisi educativa che investe una scuola che non dà quanto dovrebbe e mina così il futuro: nella scuola bisogna investire di più e meglio, non danneggiare pregiudizialmente le realtà che funzionano meglio.
martedì 21 febbraio 2012
Famiglia cuore della società
Cosa può fare la politica per le famiglie italiane? Ha ancora un senso parlare di famiglia? Perché in un momento di crisi, tagli e sacrifici bisognerebbe avere un occhio di riguardo per la famiglia? È solo un discorso ideologico cattolico? Se ne è parlato ieri a Roma al Convegno “Famiglia e Politica: un binomio possibile?”, organizzato dall’on. Luisa Santolini, aperto dal ministro Andrea Riccardi e al quale sono intervenuti tra gli altri Rocco Buttiglione, Pierferdinando Casini, Francesco Belletti e Stefano Zamagni. E la risposta alla domanda sembra ovvia in certi ambienti, ma in realtà è ormai da rispiegare in gran parte della società e degli ambienti politici anestetizzati rispetto a questo tema. La risposta dice che la famiglia è laicamente il fulcro della società, è l’elemento costitutivo del nostro mondo, quello che crea rete sociale, capitale sociale, relazioni, la famiglia rappresenta il futuro per mezzo dei figli. E tutto questo non solo in termini morali, astratti, fideistici. No. Stiamo parlando di concreti vantaggi persino economici per tutta la società italiana. È sulla famiglia che si regge l’economia italiana. La famiglia è l’unico ammortizzatore sociale realmente funzionante. Ed è il miglior centro assistenziale e anche sanitario, costretta a farsi carico di tanti, troppi enormi problemi, sostenendo costi per il sistema sanitario che poi non rende quello che prende. Di questi giorni poi sono indagini che mostrano come in Italia il lavoro si trovi soprattutto attraverso conoscenze familiari, altro che agenzie di collocamento. Ma la realtà è ancora un po’ più profonda. I figli sono l’unica garanzia del funzionamento del futuro sistema previdenziale: la crisi del sistema delle pensioni è legata anche alla crisi demografica. E l’educazione dei figli è il punto centrale della costruzione dei cittadini di domani, anche questo non solo con importanti risvolti civici, ma anche con risvolti economici: infatti quanti costi deve sostenere la comunità in conseguenza di cattivi cittadini, di problemi di ogni genere che potrebbero essere limitati se la lotta al disaggio e al disadattamento potesse davvero cominciare in famiglia. Quale differenza di livello culturale e quindi anche lavorativo c’è tra un paese che si prende cura dei propri figli, li fa studiare (davvero, non di facciata), li motiva, e un Paese dove questo non avviene, anche perché le famiglie non hanno la possibilità (a sua volta culturale, economica, sociale) di far progredire i propri figli. Le statistiche dicono che sta crescendo una generazione di giovani disoccupati, e tra questi troppi sono quelli che né lavorano né studiano e si formano. Quanto in questo c’entra anche l’abbandono in cui la famiglia è relegata? Ecco gli infiniti motivi laici per cui bisogna ripartire dalla famiglia, e per i quali la politica ha il dovere di agire concretamente in favore della famiglia. Non si tratta di piccoli provvedimenti di facciata (meglio cominciare da qualcosa che da niente), si tratta di portare avanti una rivoluzione che metta la famiglia al centro delle politiche sociali del governo. Prima di tutto delle politiche fiscali, col quoziente familiare per i figli, ma andando ben oltre considerando in toto il nucleo familiare come referente dello Stato e su questo impostando tutto. Ci sarebbero anche grandi risparmi, basti pensare a una sanità più efficiente e più calda e sicuramente meno cara se le famiglie fossero aiutate direttamente ad affrontare tante questioni (le malattie, gli anziani, anche i bambini) invece che farli prendere in caro a un servizio sanitario cui costano molto di più e dove trovano inevitabilmente meno efficienza e infinitamente meno calore. Lo stesso si può dire per l’istruzione: checché se ne dica, le scuole paritarie fanno risparmiare allo Stato un sacco di soldi. Ecco, questi temi (è uno degli argomenti del convegno di ieri cui erano presenti esponenti importanti di varie aree politiche come Beppe Fioroni) sono un altro importante aspetto politico che può unire i moderati italiani al di là delle scorie delle faziosità che ormai ci stiamo lasciando alle spalle.
giovedì 16 febbraio 2012
Vent'anni fa "mani pulite", storia della corruzione nei secoli
Tutto ha un prezzo. Sarà triste, ma la storia insegna che tutto o quasi si può comprare con bustarelle e mazzette. Dal trono imperiale al soglio pontificio, da un regno alla salvezza fino persino alla benevolenza degli dei. La corruzione è storia antica, molto preoccupante quando riguarda il presente, curiosa e a volte persino comica quando si riferisce a racconti del passato.
Si potrebbe fare una classifica dei più clamorosi episodi di corruzione nella storia. Ci sono davvero episodi da record, proviamo a citarne qualcuno.
Mesopotamia. Nel regno di Mitanni (XVI-XIV a.C., al confine tra gli attuali Iraq e Turchia) c’è un documento processuale contro un “sindaco” della città di Nuzi che, approfittando del suo ruolo, si è reso responsabile di tutta una serie di abusi. “Dalla lettura del testo – racconta il prof. Mario Liverani - risulta evidente che la pratica di dare al pubblico ufficiale una “mancia” affinché si prenda cura del caso in questione era non solo abituale ma anche accettata come legittima; l’illegittimità sta solo nel fatto che il pubblico ufficiale, dopo aver accettato la mancia, non ricambia facendo il favore previsto”. Credo che questo episodio resti ancora insuperato.
Secondo le leggi babilonesi di cui è testimonianza il codice di Hammurabi i giudici erano costretti a depositare le sentenze in involucri sigillati così che fosse sempre possibile controllarle nel caso in cui cospicui donativi intendessero far cambiare idea al magistrato in un secondo momento. Hammurabi prescrisse di tenere lontano dal mestiere il giudice che avesse mutato un verdetto già “passato in giudicato”. Nell’inno al dio del sole e della giustizia Shamash si recita: "A colui che riceve un offerta che perverte farai subire una punizione".
Egitto. “Il pover’uomo di Nippur” dalla Mesopotamia e “L’oasita eloquente” dall’Egitto, intorno al 2000 a .C., raccontano storie parallele. In entrambi i casi un funzionario di provincia ha compiuto un evidente arbitrio a danno di un povero contadino e in entrambi i casi il colpevole trova la compatta solidarietà della classe dei burocrati: solo rivolgendosi con grande fatica al re in persona i due protagonisti ottengono giustizia. In riva al Nilo le pene per i funzionari disonesti erano pesanti: rimozione dalla carica, taglio del naso e/o delle orecchie. Eppure nella stessa epoca un saggio poteva lamentarsi nelle sue “Ammonizioni”: “Chi non aveva un pane ora ha granai, ma ciò di cui son pieni i suoi magazzini sono beni di altri”. Sullo stesso tono le confessioni che ci ha lasciato un nobile egiziano in procinto di suicidarsi, forse perché vittima di abusi oppure perché accusato proprio di corruzione: “I cuori sono avidi, ognuno prende le cose del compagno”.
Israele. Anche nella Bibbia la corruzione è citata esplicitamente più volte, ed è condannata dalle leggi: Esodo 23,6-8 “Non farai deviare il giudizio del povero, che si rivolge a te nel suo processo. Ti terrai lontano da parola menzognera. Non far morire l’innocente e il giusto, perché io non assolvo il colpevole. Non accetterai doni, perché il dono acceca chi ha gli occhi aperti e perverte anche le parole dei giusti”; Deuteronomio 16,19 “Non farai violenza al diritto, non avrai riguardi personali e non accetterai regali, perché il regalo acceca gli occhi dei saggi e corrompe le parole dei giusti”.
In Mesopotamia, Egitto, Grecia e Roma le cariche pubbliche venivano spesso acquistate, e a volte affittate o subaffittate, e così i funzionari le usavano per rifarsi, per arricchirsi, compiendo ogni sorta di abuso.
India. Il problema della corruzione non ha confini. Ci si è battuto contro Confucio in Cina, i cui insegnamenti erano tutti dedicati a creare i buoni funzionari, mentre nel IV secolo a.C. il bramino Kautilya, noto anche come Chanakya, e ministro del re indiano Chandragupta Maurya, scrisse nell’“Arthashastra” che la la prova della disonestà finanziaria di un pubblico ufficiale è “facile da reperire tanto quanto è facile scoprire quant’acqua può bere un pesce che nuota liberamente nell’acqua”. Allo stesso modo, afferma l’Arthasastra, la volontà di “non assaggiare il miele posto sulla lingua è difficile quanto maneggiare i soldi del re senza assaggiarne almeno una piccola parte”.
Grecia. Varcando le onde del Mediterraneo, in Grecia persino i più grandi eroi caddero per accuse di corruzione, certo forse anche strumentali, ma forse non senza un fondo di attendibilità. Fu il caso di vincitori dei persiani come Milziade che morì in carcere per non aver potuto pagare l’enorme multa inflittagli per l’accusa di tradimento perché, pur potendo espugnare Paro, se ne era andato senza portare a termine l’impresa, in quanto corrotto dal re (fonte Cornelio Nepote). E come Temistocle (accusato degli storici Timocreonte, Erodoto e Plutarco) esiliato da Atene proprio per corruzione, e non per un solo episodio: secondo l’accusa accettò soldi per accordare una particolare protezione agli eubei durante una battaglia con i persiani, mentre in altre occasioni estorse denaro agli andri e agli abitanti di Paro e di Caristo. Esilio anche per il leader politico Cimone figlio di Milziade, accusato di essere stato corrotto da Alessandro I il Macedone al fine di evitare una spedizione punitiva ateniese contro di lui. Nel secolo successivo i famosi oratori Isocrate e Demostene si trovarono implicati in processi per corruzione che fecero epoca. Demostene fu accusato di essersi appropriato di parte del tesoro di Alessandro Magno. A Sparta la lotta contro la corruzione era ferrea e preventiva (la costituzione di Licurgo rifiutava le monete d’oro e d’argento) ma forse la città non ne fu esente: certamente però ne fu vittima il re Agesilao che mentre combatteva vittoriosamente contro i Persiani in Cappadocia fu sconfitto da 30.000 arcieri, quelli raffigurati sulle 30.000 monete d’oro che il re di Persia usò per corrompere le città greche e far loro dichiarare guerra a Sparta.
Roma come è noto non era da meno. Il primo episodio risale addirittura ai più antichi tempi leggendari: la giovane Tarpea vendette ai Sabini l’acropoli cittadina del Campidoglio e le vite dei soldati che la difendevano. Alcuni romani furono famosi per la loro incorruttibilità, e questo fa da cartina di tornasole sulla moralità degli altri. I romani erano talmente specialisti che corrompevano persino gli dei: era il rito della “evocatio deorum”, con la quale i generali romani convincevano a suon di promesse gli dei delle città nemiche a passare dalla loro parte, a permettere la sconfitta delle città loro sedi in cambio di sedi più maestose a Roma. Caso esemplare la preghiera di Camillo a Giunone perché abbandoni Veio prima della puntuale caduta.
Gli amministratori delle province furono spesso famosi soprattutto per ruberie e intrallazzi e ognuno tornava appesantito d’oro dalla provincia di competenza. Esempio famoso è il processo intentato da Cicerone al propretore Verre che aveva letteralmente saccheggiato la Sicilia. Tra le questioni chiave della politica romana c’era sempre quella della scelta dei giudici dei tribunali sulla corruzione (de repetundis), perché senatori e cavalieri volevano ciascuno giudicarsi (e assolversi) da sé. C’era poi il sistema dei pubblicani, che appaltavano la riscossione delle tasse e garantendo una cifra allo Stato potevano poi giocare sui margini. Le grandi famiglie, poi, compravano e vendevano voti e appaltavano le cariche pubbliche. Sallustio poi ci ricorda come il piccolo re nordafricano Giugurta si potesse permettere di uscire da Roma gridando “Città in vendita” avendo fatto l’esperienza di comprare l’uno dopo l’altro i generali e i senatori che l’avrebbero dovuto contrastare. Vent’anni prima Caio Gracco denunciava alla plebe l’inganno del Senato: mentre si discuteva del destino di un territorio asiatico (se assegnarlo a un re confinante o lasciarlo libero), i senatori non parlavano per il bene comune ma in base a chi li aveva comprati, se l’uno o l’altro pretendente o persino tutti e due. Catone subì 44 processi per corruzione, e anche Scipione l’Africano fu messo sotto accusa.
Ma forse l’episodio romano più clamoroso fu quando venne messo all’asta il trono imperiale. Premesso che donativi di generali e neo imperatori ai loro soldati e ai pretoriani erano cosa comune, e persino Marco Aurelio e Lucio Vero quando erano ascesi al trono avevano elargito 20 mila sesterzi, non si raggiunse mai il livello del 193 d.C. Secondo Dione Cassio “Didio Giuliano quando seppe della morte di Pertinace si precipitò alla caserma dei pretoriani e. fermatosi al cancello, offrì ai soldati una somma per comprare il trono dell’impero. Allora fu concluso l’affare più vergognoso e infame della storia di Roma, quando, come se si fosse trattato di un mercato o di una sala delle aste, tanto la città quanto l’impero furono messi in vendita all’incanto. I venditori erano quelli che poco prima avevano massacrato il proprio imperatore; gli acquirenti erano Sulpiciano e Didio Giuliano, che cercavano di superarsi a vicenda, uno dall’interno, l’altro dall’esterno della caserma. Le offerte andarono man mano aumentando, fino a raggiungere 20 mila sesterzi per soldato. Alcuni soldati andavano da Giuliano per dirgli ‘Sulpiciano offre tanto; quanto offri di più?’, poi correvano da Sulpiciano: ‘Giuliano promette tanto; tu che offri di più?’. Sulpiciano avrebbe potuto averla vinta, in quanto stava dentro ed era prefetto della città, e fu anche il primo a indicare la cifra di 20 mila; senonché Giuliano aumentò la propria offerta di 5 mila sesterzi in una sola volta, urlando la cifra e indicandola anche con le dita della mano. Allora i soldati, attratti dall’enormità della somma e temendo contemporaneamente che Sulpiciano volesse vendicare suo genero Pertinace (idea che Giuliano aveva fatto loro venire in mente) accolsero lo stesso Giuliano all’interno della loro caserma e lo proclamarono imperatore”.
Cristianesimo. Nell’antica Roma la corruzione ha toccato anche i primi cristiani: durante le persecuzioni, se molti divennero martiri (tra loro Papa Fabiano) e altri si piegarono alle imposizioni imperiali, altri si arrangiarono e acquistarono da funzionari corrotti il libellus che attestava che avevano svolto i riti pagani richiesti.
Ma anche nella storia dei Papi non mancano episodi di corruzione, anzi. E non parliamo solo di quella corruzione morale che in certi secoli ha raggiunto tali livelli da far capire che la sopravvivenza della Chiesa e dell’ortodossia nonostante tutto sono la prova della “tutela” dello Spirito Santo. Un caso davvero eclatante fu quello di Benedetto IX, che in cambio di 650 chili d’oro nel 1045 abdicò da Papa in favore del suo corruttore divenuto Gregorio VI.
Un altro episodio che spicca sui tanti altri riguarda l’elezione di Sergio I nel 687. Alla morte di papa Conone, per essere eletto l’arcidiacono Pasquale si dette da fare presso l’esarca bizantino per ottenere la successione dietro la concreta promessa di cento libbre d’oro. Giovanni Platina accettò l’offerta e diede ordine ai magistrati imperiali che influenzavano il popolo di far eleggere Pasquale appena Conone fosse morto. Ma l’elezione non andò a buon fine e venne scelto Sergio I. L’esarca fece buon viso a cattivo gioco e abbandonò Pasquale confermando Sergio, ma pretese da lui le cento libbre già promessegli dal rivale.
Nel 532-533 l’ultimo decreto (Senatus Consultum) noto del Senato di Roma fu diretto proprio contro la simonia nelle elezioni papali e fu confermato dal re goto Atalarico. Quest'ultimo ordinò che il decreto fosse inciso sul marmo e fosse collocato nell’atrio di San Pietro. A sua volta però il re Atalarico, per “comporre comporre eventuali dispute tra laicato e clero nell’elezione del Papa”, stanziò a disposizione dei dignitari regi 3.000 solidi con cui procurare suffragi al candidato da essi prescelto. Decreto comunque di scarsa efficacia se poco dopo, nel 537, il futuro Papa Vigilio corruppe il famoso generale bizantino Belisario non solo per essere eletto ma addirittura per fargli deporre con un’azione di forza il legittimo Papa Silverio. L’azione andò in porto, anche se in seguito entrambi mostrarono pentimento per il gesto.
Medioevo. Più volte poi nel Medioevo il nuovo senato romano dovette di nuovo formalmente vietare “di trattare la successione del Papa quando c’è ancora quello vivente e di accettare doni e denaro per appoggiare un candidato al pontificato”. Furono moltissimi i processi per simonia. Anche Dante dedicò una regione del suo inferno alla simonia, e ancor più spazio riservò ai barattieri, nome con cui si indicavano appunto i funzionari corrotti, la cui bolgia è descritta nei canti 21 e 22 dell’Inferno. Certo, a Roma antica come nelle beghe ecclesiastiche come nel medioevo dantesco la corruzione era tanto diffusa che non sempre siamo certi della veridicità delle accuse, usate facilmente in modo strumentale a fini di delegittimazione politica. Resta il fatto che lo stesso fustigatore Dante fu accusato di corruzione, ed è questo il motivo per cui fu esiliato da Firenze.
Francia. Ma nessun episodio della storia è esente da questa piaga. I furori purificatori della Rivoluzione Francese non mancarono certo di episodi di corruzione. Non è calcolabile quanti nobili e altri si salvarono dall’arresto e dalla ghigliottina grazie a una mancia alla persona giusta, né quanti riuscirono a fuggire in esilio “oliando” le guardie di frontiera. Ma Basti ricordare, all’opposto, due protagonisti indiscussi del periodo. Maximilian Robesbierre venne detto “l’incorruttibile”, e questo la dice lunga su cosa si doveva invece pensare di tutti gli altri. E infatti processato e condannato per corruzione fu anche George Jacques Danton, che forse fu ancor più dell’altro una figura chiave della Rivoluzione e i cui celebri discorsi ancora infiammano i difensori dei diritti. Fu ghigliottinato per rivalità politiche, certo, ma l’accusa, non campata in aria, era proprio quella di illecito arricchimento personale.
Italia. Per chiudere riavvicinandoci un po’ nel tempo, senza cadere nella cronaca relativamente recente a tutti nota come Tangentopoli, ricordiamo che la nascita della stessa Banca d’Italia deriva da una riforma seguita a un gigantesco scandalo di corruzione, quello noto come della Banca Romana che travolse la politica italiana di fine Ottocento. Prima del 1890 la Banca Romana , una delle sei autorizzate ad emettere moneta, per coprire le sue perdite a fronte dei 60.000.000 autorizzati, aveva emesso biglietti di banca per 113 milioni di lire, incluse banconote false per 40 milioni emesse in serie doppia. Per tutelare i suoi traffici aveva lautamente pagato politici, alcuni comprovati altri solo denunciati, compresi primi ministri come Crispi e Giolitti che se la cavò ma dovette dimettersi. 22 parlamentari di primo piano furono processati, e infine assolti per la sparizione di documenti. Secondo gli storici un po’ tutte le forze politiche e gli stessi magistrati furono d’accordo nell’evitare che lo scandalo finisse per travolgere il sistema italiano.
Verità e Cultura, by BXVI
Benedetto XVI: "La cultura nutrita dalla fede porta alla vera umanizzazione, mentre le false culture finiscono per condurre alla disumanizzazione: in Europa e in Africa ne abbiamo avuto tristi esempi. Quella della cultura deve essere quindi una costante preoccupazione che rientra nella azione pastorale, tenendo sempre ben presente che la luce del Vangelo si inserisce nel tessuto culturale elevandolo e facendone fecondare le ricchezze. La Chiesa rispetta ogni scoperta della verità, perché tutta la verità viene da Dio, ma sa che lo sguardo della fede fissato sul Cristo apre la mente e il cuore dell'uomo alla Verità Prima, che è Dio".
mercoledì 8 febbraio 2012
La riforma necessaria della legge elettorale 1 e 2
1
La legge elettorale è un tema che poco appassiona i cittadini, anzi non li interessa proprio. Questo mantra spesso ripetuto è del tutto sbagliato, ed è servito come scusa all’immobilismo dei politici ma anche come scudo alla pigrizia dei giornalisti. Certo, i tecnicismi della legge elettorale non sono certo l’argomento preferito nei bar il lunedì mattina, ci mancherebbe. Ma l’interesse c’è, e soprattutto ci dovrebbe essere, e come spesso accade la scarsa attenzione civica a questo tema non è la causa dello scarso dibattito, ma succede esattamente il contrario: è chi decide l’agenda della comunicazione che ha tenuto il tema lontano dagli italiani. Chiariamoci: la legge elettorale in sé non può essere un tema di spettacolare intrattenimento e di scoppiettanti talk show. Però può e deve essere tema di approfondimento in quanto è un elemento base di quella educazione civica che in Italia è carente e che il circuito politico-mediatico non si dà certo pena di alimentare. Adesso è arrivato il momento di rovesciare questa pigra tendenza: ora i partiti in primis, e di conseguenza i mezzi di comunicazione, devono assumersi la responsabilità di affrontare questo tema con serietà e anche davanti ai cittadini. Per loro è una prova di maturità ma anche una prova di appello: la crisi della politica è strettamente legata alla crisi delle leggi elettorali. I partiti devono dimostrare di essere all’altezza della situazione, di essere utili al paese e alla democrazia, avendo la forza e il coraggio di affrontare quello che è il tema fondamentale. Perché sul senso della legge elettorale forse non c’è abbastanza chiarezza e consapevolezza. Da un lato bisogna sottolineare con forza che non esiste una legge elettorale perfetta, che tutte hanno pregi e difetti, che la legge elettorale da sola non basta a risolvere i problemi della politica. Una stessa buona legge elettorale può dare esiti funzionali diversi in situazioni diverse, vale a dire in paesi diversi o in periodi diversi nello stesso Paese. Se non esiste una legge elettorale migliore in assoluto, esistono però leggi elettorali peggiori che minano alla base il funzionamento della democrazia. Perché le leggi elettorali sono lo strumento (un mezzo, quindi, non un fine, ma un mezzo essenziale) attraverso cui si esprime e si trasforma in forza operativa la volontà popolare, e che crea le condizioni nelle quali la politica possa affrontare le necessità del Paese. Se la legge elettorale non dà risultati apprezzabili, diventa un ostacolo sulla via della democrazia stessa, e avvia un circolo vizioso di degenerazione e di degrado che non si sa dove possa portare. E questo è quanto è avvenuto fino ad ora, con i risultati che vediamo sia per quanto riguarda la cattiva gestione del Paese sia per quanto riguarda la crisi della politica. D’altro canto la legge elettorale serve a selezionare la classe dirigente: se la selezione avviene per cooptazione da parte di chi condivide interessi e ha per merito la fedeltà ai capi, quale tipo di rappresentanza del Paese e quale rapporto input-output possono esistere?
Quindi eccoci al punto: assodato che la legge elettorale è fondamentale nel senso che è alle fondamenta della vita democratica del Paese, e accertato che questo certamente interessa ai cittadini, sia perché l’hanno dimostrato in più occasioni (comprese le firme per i referendum, a prescindere dal contenuto delle singole proposte) sia perché sta comunque alla classe dirigente far capire ai cittadini l’importanza del tema, premesso questo ora tocca ai partiti mettersi a lavorare davvero. Un’altra porcata o peggio ancora l’inerzia non sarebbero ulteriormente accettabili. I partiti devono dimostrare di essere in grado di assumersi la responsabilità di disegnare l’architettura istituzionale del nostro Paese per il futuro. Riforme e legge elettorale devono essere fatte in funzione della democrazia italiana per le prossime generazioni. Guai a fare leggi elettorali fondate sull’interesse di parte, per escludere questo o quello, per consolidare posizioni di potere che magari scricchiolano sotto il peso dell’insoddisfazione popolare. Una legge elettorale fatta per interesse di parte non reggerebbe alla prova dei fatti ma al contrario alimenterebbe il grave disagio verso la politica e finirebbe per schiantare i suoi stessi promotori e con loro forse anche altre forme di vita democratica. Al contrario è proprio ai partiti attuali che spetta il compito di riscattarsi costruendo un modello che dia ai cittadini il senso dell’utilità della politica. Una legge che deve avere alcune caratteristiche immancabili. La legge elettorale scientificamente si deve equilibrare tra due esigenze: garantire una rappresentanza e permettere la governabilità. Quanto al primo tema è evidente che oltre al tema importante della rappresentanza delle realtà cultural-politche del Paese il primo tema è quello della rappresentanza dei parlamentari: cosa che vuol dire che tra gli elettori e gli eletti ci deve essere un filo diretto, gli eletti devono essere scelti dagli elettori cui devono rispondere. Un guasto evidente della politica e della democrazia recente è che gli eletti rispondevano ai capi cui dovevano il posto in lista, e non erano tenuti al rispetto nei confronti degli elettori. Il tema della governabilità è anch’esso delicato. Bisogna sgombrare il campo dal mito della maggioranza assoluta che così è priva di impedimenti per governare: al di là degli evidenti dubbi teorici, è la storia concreta che ha dimostrato che questo schema non funziona. Non sono coalizioni elettorali capaci di vincere ma incapaci di governare che garantiscono la forza di decidere, e neanche uno sproporzionato premio di maggioranza e una spinta al bipartitismo hanno dato buona prova di sé, mostrando come invece di garantire la governabilità hanno solo aumentato la forza di ricatto e il frazionismo. La coesione e la solidità possono derivare solo da leggi elettorali che aiutino l’omogeneità, l’assunzione di responsabilità e l’indipendenza dai ricatti degli estremi.
2Continuano i colloqui sulla riforma elettorale. È bene che i partiti cerchino di recuperare lo spirito di iniziativa su temi fondamentali come le riforme che restano al di fuori del recinto economico del governo tecnico. Quello della legge elettorale è un tema su cui battere, perché è innegabile che è alle fondamenta del sistema politico. Con la legge elettorale si seleziona la classe dirigente e si canalizza (favorendola e incoraggiandola, oppure no) la partecipazione elettorale. Più passa il tempo e più è evidente che i partiti devono quindi recuperare su questo terreno il loro protagonismo, ma senza peccare di velleitarismo ed egocentrismo. Una buona legge elettorale è tale anche se rispetta la situazione reale del paese, almeno nel periodo in cui deve essere applicata, e quindi regge alla prova dei fatti. Vale a dire che un tentativo di forzare una legge elettorale dentro schemi precostituiti porta inevitabilmente a una crisi di rigetto e a un peggioramento della situazione. Lo si è visto palesemente in questi anni con la forzatura astratta che voleva imporre il bipartitismo e un bipolarismo ingessato ed estremo: su questa teoria convergevano le astrattezze di molti intellettuali e le concretezze di una certa classe politica che mirava a rafforzare e cristallizzare il suo potere. Il tutto è naufragato miseramente contribuendo solo a portare l’Italia sempre più vicina al baratro. È stato il regno dell’ingovernabilità quando si predicava che la governabilità era l’unico obiettivo e che si sarebbe raggiunto grazie a maggioritario e/o premio di maggioranza. Ebbene, proprio questo ha portato il sistema al crash, creando coalizioni forzate che hanno raccattato di tutto per vincere le elezioni ma non sono state in grado di governare. Persino i partiti invece di diminuire hanno proliferato. In questo contesto è impensabile che PDL e PD tentino un colpo di mano per creare artificialmente un sistema che li ponga come unici protagonisti politici. Tanto più impossibile oggi che, ammesso che sopravvivano, questi due partiti non raggiungono insieme neanche il 50% dei consensi espressi, senza tener conto di un astensionismo altissimo che fa sì che in dati reali neanche un italiano su quattro si riconosce nei due partiti. Sarebbe invece ora, e forse sta accadendo, che PD e PDL dimostrino di essere classe dirigente assumendosi la responsabilità di fare il bene del Paese, di pensare riforme istituzionali ed elettorali che servano al paese e non a interessi di parte. In questo sono facilitati da una sponda che ha il pedigree perfetto: l’UDC da tempo predica la fine del bipartitismo fazioso e al contempo si è sempre detto favorevole a un sistema che favorisca e promuova (ma non forzi) le aggregazioni e limiti la dispersione del voto e la frammentazione partitica. Questo sistema si può realizzare in vari modi ed esistono vari modelli, ma certo quello tedesco è il più adatto e il più sperimentato. Altro punto chiave: il rapporto tra eletti ed elettori, la fine di un ridicolo parlamento di nominati e la possibilità di scegliere i parlamentari. Anche su questo l’UDC si batte da tempi non sospetti, e chiede il ritorno alla preferenza. PD e PDL continuano a ripetere un curioso controsenso: basta ai politici nominati (come se non fossero loro i primi responsabili di questa tendenza) ma no anche alle preferenze. Questo crea un cortocircuito. Però esistono un paio di sistemi che consentono di conciliare queste due esigenze. Uno è il maggioritario di collegio, che però ha già dato cattiva prova di sé e comunque crea quelle coalizioni ammucchiate che in Italia non funzionano. L’altro, guarda caso, è il sistema tedesco, proporzionale con collegi, che non esprime preferenze ma fa eleggere i deputati sulla base del maggior consenso ricevuto.
giovedì 26 gennaio 2012
Rivoluzione politica: prima i contenuti e poi in base a questi le allenze
C’è una clamorosa novità poco sottolineata negli ultimi avvenimenti politici. Approvate da un maggioranza persino più ampia dell’ampia maggioranza che le ha sottoscritte, le mozioni unitarie sulla politica europea dell’Italia segnano un punto importante nella storia politica recente. Oltre alla mozione europea promossa da Rocco Buttiglione, poi, bisogna ricordare che la settimana scorsa c’era stata la mozione unitaria sulla giustizia promossa da Roberto Rao per approvare la relazione del ministro Severino. Ci sono poi da calcolare le tre fiducie incassate dal governo col voto favorevole di Terzo Polo-PD-PDL più altri. Ma insisto sul fatto che le mozioni valgono persino più delle fiducie, e nulla esclude che altre mozioni comuni possano essere realizzate nel prossimo futuro, in vari campi, dagli esteri alla cultura all’economia. Ma già la Giustizia e l’Europa sono due tra i temi in assoluto più sensibili in campo e anche con alte potenzialità di divisione. Non sono mancate infatti le resistenze alla pratica fin qui inusuale del documento realizzato e sottoscritto insieme dagli ex avversari. Alcuni forse avrebbero preferito approvare mozioni simili ma distinte. D’altro canto il governo ha dato parere favorevole a quasi tutte le mozioni. Ma è proprio questo che indica l’importanza di quanto accaduto: si sarebbe potuto approvare sia mozioni del PD che del PDL, si è preferito approvarne una comune, per dare più forza al governo nell’interesse dell’Italia. Una scelta politica. Una scelta responsabile. Che segna una clamorosa inversione rispetto a quanto accaduto negli ultimi venti anni. Finora prevaleva la logica delle maggioranze precostituite. La logica del “o di qua o di là”, a prescindere da tutto. Prima le alleanze elettorali, poi i contenuti, con i risultati che si sono visti nell’incapacità di governare davvero. Contro questa logica si è battuto dall’inizio l’UDC, che in questo vedeva il male del bipolarismo fazioso. Con le mozioni si inverte completamente il processo: prima i contenuti, pensati in funzione dell’interesse comune dell’Italia, poi sulla base della condivisione o meno di questi contenuti, le alleanze. In qualche modo le mozioni e le fiducie in una condizione di emergenza come quella in cui ci troviamo delineano un nuovo arco costituzionale che non necessariamente prefigura una attuale o futura coalizione, ma che comunque inevitabilmente costituisce lo scenario all’interno del quale si potranno formare le coalizioni. Chi si colloca al di fuori della condivisione di una via maestra dell’interesse nazionale si autoesclude dalla possibilità di andare al governo. Questa è la nuova strada che si sta tracciando, e questo è anche uno dei nodi politici essenziali di questi giorni. Lo dimostrano i problemi e le opzioni di scelta con cui si confrontano tutti gli attori politici. Il Terzo Polo, che è indiscutibilmente il maggior protagonista e la guida di questa svolta,ma deve stare attento a camminare su un percorso comunque minato. Il PD, che a sua volta oltre ad essere percorso da tensioni interne fa ancora fatica a definire la propria identità anche nei rapporti con le realtà esterne, dal centro alla sinistra, dall’IDV ai sindacati. Tanto più vale per l’IDV che alterna il suo atteggiamento tra consenso e demagogia, tra voti favorevoli e contrari, tra sostegno e ostruzionismo. Ma il tutto è ancor più lampante sull’altro fronte. La Lega ha scelto coerentemente la linea dell’opposizione demagogica, nonostante tutta la sua innegabile grave crisi sia interna che di consensi. È un po’ buffo sentire i loro esponenti accusare il governo di tutti i mali di questo Paese come se fossero sorti tutti nell’ultimo mese e non fossero stati loro a governare fino a prima di Natale, ma tant’è. È chiaro che la Lega , almeno quella ufficiale, vuole porsi al di fuori di quell’arco costituzionale che si preoccupa dell’interesse nazionale: “Come dicevamo l’Italia è fallita”, ripetono. Il punto è il PDL. Innegabilmente vive un forte contrasto interiore, che attraversa le correnti ma forse dilania anche l’animo dei singoli esponenti. Sono tentati dalle sirene della Lega a restaurare il precedente status quo. Allo stesso tempo in molti capiscono che l’unica strada percorribile è quella intrapresa dal governo Monti. I diktat della Lega infastidiscono, ma allo stesso spaventano. E il PDL resta pericolosamente in bilico tra il salto nel futuro e il ritorno al passato. È ora di avere più coraggio, di valutare i contenuti. E di conseguenza vale anche per il governo: non deve fare errori, non deve dare occasioni di crisi, di fuoriuscita dalla maggioranza. È un governo di tecnici, devono mostrarsi all’altezza delle questioni che devono affrontare. Qualche scivolone ogni tanto c’è. Va evitato ad ogni costo, perché nessuno possa trovare l’appiglio cui attaccarsi per far ritornare in auge la nostalgia e abbandonare la strada maestra del bene comune. No, bisogna tenere la barra dritta. Per una politica dei contenuti da cui discendano le scelte politiche, e non il contrario.
lunedì 23 gennaio 2012
Un'idea sulle automobili e il traffico
Questa idea non piacerà ai produttori di automobili. Lo Stato inoltre dirà che non ha i soldi per realizzarla. Non so neanche se gli sfasciacarrozze ne trarrebbero o meno giovamento. Non produce crescita economica. E forse non è nemmeno realizzabile in toto o in parte. Se con tutto questo state ancora leggendo, allora forse proprio da voi potrebbe arrivare quel commento, quell'idea che magari possa trasformare questa boutade in qualcosa di realizzabile e utile. Dunque, in giro ci sono troppe macchine. E al contempo c’è una pesante crisi che morde moltissimo proprio anche attraverso le spese per le automobili: carburante, assicurazione, bollo, manutenzione. Ma nonostante la crisi non si dà via la macchina, anche perché sennò come si fa a spostarsi nel caos delle nostre città, con mezzi pubblici inadeguati. E allora le strade continuano sempre più ad essere intasate da auto, e per di più sempre più vecchie e malridotte, con peggioramenti per l’inquinamento e anche per la sicurezza. Soluzioni non ce n’è, ma qualche spinta a migliorare la situazione si potrebbe trovare. Per esempio, incentivi alla rottamazione. Ecco, già sento il rumore delle reazioni dei lettori. Chi dice ‘sai che novità’, e chi grida al favore alle industrie e allo stimolo ad abituarsi alla ricerca di nuove macchine. No, stiamo andando in direzione opposta. Quando dico incentivi alla rottamazione prendo l’espressione alla lettera. Cioè mi chiedo se sia possibile promuovere una rottamazione delle macchine non in cambio di auto nuovo, ma proprio per ridurne il numero ed eliminare dalle strade vetture in cattive condizioni. Lo Stato potrebbe offrire dei soldi (mille euro? O secondo l’auto?), che di questi tempi potrebbero far comodo a molti: qualche liquido in più e meno spese per il futuro. Inoltre lo Stato potrebbe trovare il modo per mettersi d’accordo con gli sfasciacarrozze per promuovere il recupero di più materiali possibili dalle auto rottamate: non solo uno smaltimento ecocompatibile, ma addirittura la possibilità di far in qualche modo fruttare quelle moderne miniere che sono i cimiteri di prodotti (auto in questo caso) gettati via. Credo (spero) già si faccia, ma questa operazione potrebbe essere l’occasione per un impegno organico e una pianificazione più sistematica in questo ambito. Magari i fondi recuperati dal riciclo di materiali potrebbero poi essere destinati ai trasporti pubblici, che comunque dovranno essere potenziati e fatti funzionare. Un elemento importante infatti di questo piano per ridurre le auto è quello di offrire un valido mezzo di trasporto alternativo, che convinca a lasciare l’auto. Siccome però al contempo si dice spesso che i mezzi pubblici non possono funzionare tanto bene perché comunque ci sono troppe auto in giro, beh, disincentiviamole con una buona occasione. Niente per mandare in crisi il mercato delle auto, ma un aggiustamento in tempo di crisi perché no.
martedì 10 gennaio 2012
Il 2012 dei partiti. Si punta sul vecchio o sul nuovo?
È un anno del tutto nuovo il 2012 che si prospetta per i partiti italiani. Un nuovo inizio. Di fronte a loro hanno un ventaglio di scelte di comportamento che avranno una grande influenza sul destino dell’Italia ma anche sulla loro stessa sopravvivenza e sulla nuova immagine che di loro avranno l’opinione pubblica e gli elettori. I partiti sono in parte sgravati dalla responsabilità del governo, e dopo un ventennio di orgia di protagonismo all’inseguimento della partecipazione tv e dell’annuncio propagandistico, dopo tanto tempo passato sotto l’ombrello di Berlusconi e del berlusconismo, della politica personalistica e spettacolarizzata, ecco che adesso si impone un momento di respiro, un attimo per tirare il fiato. Una pausa di riflessione. Una sana dieta dimagrante per la bulimia di politica urlata che ci è stata inflitta in questi lustri di bipolarismo becero e inconcludente.
Ma questa pausa, questo momento di passo indietro non vuole assolutamente significare il venir meno di ogni responsabilità. Anzi. Il passo indietro richiesto ai partiti è in realtà un passo avanti richiesto alla politica. E i protagonisti di questa fase hanno l’enorme responsabilità del nuovo inizio, non potranno trincerarsi dietro l’essersi trovati in un certo clima cui si sono adeguati. Oggi il clima è indiscutibilmente cambiato, è più responsabile, l’aria è più pura, e quale sarà il clima per il futuro verrà deciso proprio in questi tempi decisivi. Per cui ciascun politico, ciascun partito oggi più che mai è investito della responsabilità dell’ora e del futuro, come in uno start up, per non voler scomodare la parola costituente.
In queste contingenze che sono per altro assai difficili e dure, i partiti hanno di fronte un ventaglio di opzioni comportamentali, non tutte alternative. C’è la scelta di proseguire in continuità con quanto accaduto finora, fingere che ci troviamo in una bolla che si limiterà ad essere una parentesi, e riprendere a ragionare come si faceva prima, con contrapposizioni, faziosità, spettacolarizzazione. Si può continuare a vivere in una campagna elettorale permanente e sguaiata, fatta di aggressioni al nemico di turno (per mascherare la propria inconsistenza, come è accaduto finora), punteggiata di promesse sgangherate e di vili inseguimenti della pancia della gente svelata da arruffati sondaggi del momento. Con un governo tecnico questo è ancora più facile, perché è un ottimo paravento su cui scaricare tutte le (proprie) colpe senza mai doversi assumere la responsabilità di mettere in pratica le proprie sconnesse idee. Quando poi si tornerà al voto, magari con un bilancio un po’ risanato si potrà cercare di sperperare di nuovo quel tesoretto di autorevolezza, credibilità e rigore che altri avevano messo da parte, pronti poi a rovesciare di nuovo su non si sa chi la colpa del nuovo sfascio che il ritorno della vecchia politica avrà di nuovo comportato. D’altro canto quella vecchia becera politica vive d’effimero, degli umori del momento, e conta sul fatto che gli italiani solleticati oggi nei loro istinti peggiori siano confusi, annebbiati, e non ricordino perché si è arrivati a tanto, cosa si è fatto ieri, e chi sono i responsabili, e si accaniscano solo sulla preda-trappola che gli viene messa sotto il naso. Starà agli italiani dimostrare di non essere così insensati da meritare il ritorno a questa politica-truffa.
Seconda opzione per i partiti è quella di prendersi un periodo di vacanza, di stare alla finestra, di lasciar fare ai tecnici mantenendosi il più possibile alla larga. Per non intralciare il loro lavoro, si dirà, ma anche per non rischiare contaminazioni e non assumersi responsabilità che non si è in grado di portare. Poi, chi vivrà vedrà. Altri avranno fatto il lavoro pesante, anche quello sporco, e le cose saranno state raddrizzate. A quel punto si ritorna in gioco, con meno problemi e magari contando sulla citata tendenza italica all’amnesia. Questa opzione, diciamolo, ha del buono. Se non abbiamo assistito alla sconfitta della politica, ma certo a quella di una certa politica, se sono dovuti intervenire i tecnici, allora è anche giusto lasciarli fare. Partiti troppo presenti, troppo condizionanti, troppo avanzanti pretese, potrebbero essere d’intralcio. È giusto lasciare al governo il margine di azione che gli compete. Ad esempio è giusto lasciare a governo e parti sociali (leggi ad esempio sindacati) lo spazio per confrontarsi, ma questo non vuol dire svignarsela di fronte ai temi più importanti per l’Italia, come il lavoro e l’occupazione.
Ma senza esagerare, senza usarlo come paravento. E qui scatta la terza opzione, quella della responsabilità. Perché se ogni governo, ogni scelta è politica, allora che ci stanno a fare i partiti se non a partecipare, ad assumersi le loro responsabilità? Che cosa sono i partiti se non le cinghie di trasmissione tra i cittadini e la politica? E allora questo devono fare, in ogni caso. Oggi, più che mai, devono essere le cinghie di trasmissione tra i cittadini, naturalmente e giustamente turbati e confusi dalla tempesta che ci ha investito, e il governo, che proprio perché è tecnico ha bisogno di sostegno politico. Sostegno che si manifesta nei consigli per orientarsi, nel riportargli le giuste istanze raccolte dai partiti, ma soprattutto nell’agire nella direzione contraria, cioè dal governo verso i cittadini, contribuendo a spiegare, a sostenere (non necessariamente a scatola chiusa), a chiarire gli obiettivi per un bene migliore e comune che si deve intravedere alla fine dei sacrifici. I partiti che si sapranno assumere questa responsabilità, questo ruolo di mediazione e rappresentanza che gli è proprio, quei partiti segneranno il nuovo inizio, saranno protagonisti della nuova politica e avranno credito e credibilità per raccogliere un consenso solido dei cittadini. Gli altri avranno due opzioni: essere subito spazzati via da un’auspicabile ondata di serietà e responsabilità, oppure raccogliere un enorme consenso umorale “contro”, e poi andare a fondo con tutto il Paese.
Iscriviti a:
Post (Atom)