mercoledì 8 febbraio 2012

La riforma necessaria della legge elettorale 1 e 2

1
La legge elettorale è un tema che poco appassiona i cittadini, anzi non li interessa proprio. Questo mantra spesso ripetuto è del tutto sbagliato, ed è servito come scusa all’immobilismo dei politici ma anche come scudo alla pigrizia dei giornalisti. Certo, i tecnicismi della legge elettorale non sono certo l’argomento preferito nei bar il lunedì mattina, ci mancherebbe. Ma l’interesse c’è, e soprattutto ci dovrebbe essere, e come spesso accade la scarsa attenzione civica a questo tema non è la causa dello scarso dibattito, ma succede esattamente il contrario: è chi decide l’agenda della comunicazione che ha tenuto il tema lontano dagli italiani. Chiariamoci: la legge elettorale in sé non può essere un tema di spettacolare intrattenimento e di scoppiettanti talk show. Però può e deve essere tema di approfondimento in quanto è un elemento base di quella educazione civica che in Italia è carente e che il circuito politico-mediatico non si dà certo pena di alimentare. Adesso è arrivato il momento di rovesciare questa pigra tendenza: ora i partiti in primis, e di conseguenza i mezzi di comunicazione, devono assumersi la responsabilità di affrontare questo tema con serietà e anche davanti ai cittadini. Per loro è una prova di maturità ma anche una prova di appello: la crisi della politica è strettamente legata alla crisi delle leggi elettorali. I partiti devono dimostrare di essere all’altezza della situazione, di essere utili al paese e alla democrazia, avendo la forza e il coraggio di affrontare quello che è il tema fondamentale. Perché sul senso della legge elettorale forse non c’è abbastanza chiarezza e consapevolezza. Da un lato bisogna sottolineare con forza che non esiste una legge elettorale perfetta, che tutte hanno pregi e difetti, che la legge elettorale da sola non basta a risolvere i problemi della politica. Una stessa buona legge elettorale può dare esiti funzionali diversi in situazioni diverse, vale a dire in paesi diversi o in periodi diversi nello stesso Paese. Se non esiste una legge elettorale migliore in assoluto, esistono però leggi elettorali peggiori che minano alla base il funzionamento della democrazia. Perché le leggi elettorali sono lo strumento (un mezzo, quindi, non un fine, ma un mezzo essenziale) attraverso cui si esprime e si trasforma in forza operativa la volontà popolare, e che crea le condizioni nelle quali la politica possa affrontare le necessità del Paese. Se la legge elettorale non dà risultati apprezzabili, diventa un ostacolo sulla via della democrazia stessa, e avvia un circolo vizioso di degenerazione e di degrado che non si sa dove possa portare. E questo è quanto è avvenuto fino ad ora, con i risultati che vediamo sia per quanto riguarda la cattiva gestione del Paese sia per quanto riguarda la crisi della politica. D’altro canto la legge elettorale serve a selezionare la classe dirigente: se la selezione avviene per cooptazione da parte di chi condivide interessi e ha per merito la fedeltà ai capi, quale tipo di rappresentanza del Paese e quale rapporto input-output possono esistere?
Quindi eccoci al punto: assodato che la legge elettorale è fondamentale nel senso che è alle fondamenta della vita democratica del Paese, e accertato che questo certamente interessa ai cittadini, sia perché l’hanno dimostrato in più occasioni (comprese le firme per i referendum, a prescindere dal contenuto delle singole proposte) sia perché sta comunque alla classe dirigente far capire ai cittadini l’importanza del tema, premesso questo ora tocca ai partiti mettersi a lavorare davvero. Un’altra porcata o peggio ancora l’inerzia non sarebbero ulteriormente accettabili. I partiti devono dimostrare di essere in grado di assumersi la responsabilità di disegnare l’architettura istituzionale del nostro Paese per il futuro. Riforme e legge elettorale devono essere fatte in funzione della democrazia italiana per le prossime generazioni. Guai a fare leggi elettorali fondate sull’interesse di parte, per escludere questo o quello, per consolidare posizioni di potere che magari scricchiolano sotto il peso dell’insoddisfazione popolare. Una legge elettorale fatta per interesse di parte non reggerebbe alla prova dei fatti ma al contrario alimenterebbe il grave disagio verso la politica e finirebbe per schiantare i suoi stessi promotori e con loro forse anche altre forme di vita democratica. Al contrario è proprio ai partiti attuali che spetta il compito di riscattarsi costruendo un modello che dia ai cittadini il senso dell’utilità della politica. Una legge che deve avere alcune caratteristiche immancabili. La legge elettorale scientificamente si deve equilibrare tra due esigenze: garantire una rappresentanza e permettere la governabilità. Quanto al primo tema è evidente che oltre al tema importante della rappresentanza delle realtà cultural-politche del Paese il primo tema è quello della rappresentanza dei parlamentari: cosa che vuol dire che tra gli elettori e gli eletti ci deve essere un filo diretto, gli eletti devono essere scelti dagli elettori cui devono rispondere. Un guasto evidente della politica e della democrazia recente è che gli eletti rispondevano ai capi cui dovevano il posto in lista, e non erano tenuti al rispetto nei confronti degli elettori. Il tema della governabilità è anch’esso delicato. Bisogna sgombrare il campo dal mito della maggioranza assoluta che così è priva di impedimenti per governare: al di là degli evidenti dubbi teorici, è la storia concreta che ha dimostrato che questo schema non funziona. Non sono coalizioni elettorali capaci di vincere ma incapaci di governare che garantiscono la forza di decidere, e neanche uno sproporzionato premio di maggioranza e una spinta al bipartitismo hanno dato buona prova di sé, mostrando come invece di garantire la governabilità hanno solo aumentato la forza di ricatto e il frazionismo. La coesione e la solidità possono derivare solo da leggi elettorali che aiutino l’omogeneità, l’assunzione di responsabilità e l’indipendenza dai ricatti degli estremi.
2
Continuano i colloqui sulla riforma elettorale. È bene che i partiti cerchino di recuperare lo spirito di iniziativa su temi fondamentali come le riforme che restano al di fuori del recinto economico del governo tecnico. Quello della legge elettorale è un tema su cui battere, perché è innegabile che è alle fondamenta del sistema politico. Con la legge elettorale si seleziona la classe dirigente e si canalizza (favorendola e incoraggiandola, oppure no) la partecipazione elettorale. Più passa il tempo e più è evidente che i partiti devono quindi recuperare su questo terreno il loro protagonismo, ma senza peccare di velleitarismo ed egocentrismo. Una buona legge elettorale è tale anche se rispetta la situazione reale del paese, almeno nel periodo in cui deve essere applicata, e quindi regge alla prova dei fatti. Vale a dire che un tentativo di forzare una legge elettorale dentro schemi precostituiti porta inevitabilmente a una crisi di rigetto e a un peggioramento della situazione. Lo si è visto palesemente in questi anni con la forzatura astratta che voleva imporre il bipartitismo e un bipolarismo ingessato ed estremo: su questa teoria convergevano le astrattezze di molti intellettuali e le concretezze di una certa classe politica che mirava a rafforzare e cristallizzare il suo potere. Il tutto è naufragato miseramente contribuendo solo a portare l’Italia sempre più vicina al baratro. È stato il regno dell’ingovernabilità quando si predicava che la governabilità era l’unico obiettivo e che si sarebbe raggiunto grazie a maggioritario e/o premio di maggioranza. Ebbene, proprio questo ha portato il sistema al crash, creando coalizioni forzate che hanno raccattato di tutto per vincere le elezioni ma non sono state in grado di governare. Persino i partiti invece di diminuire hanno proliferato. In questo contesto è impensabile che PDL e PD tentino un colpo di mano per creare artificialmente un sistema che li ponga come unici protagonisti politici. Tanto più impossibile oggi che, ammesso che sopravvivano, questi due partiti non raggiungono insieme neanche il 50% dei consensi espressi, senza tener conto di un astensionismo altissimo che fa sì che in dati reali neanche un italiano su quattro si riconosce nei due partiti. Sarebbe invece ora, e forse sta accadendo, che PD e PDL dimostrino di essere classe dirigente assumendosi la responsabilità di fare il bene del Paese, di pensare riforme istituzionali ed elettorali che servano al paese e non a interessi di parte. In questo sono facilitati da una sponda che ha il pedigree perfetto: l’UDC da tempo predica la fine del bipartitismo fazioso e al contempo si è sempre detto favorevole a un sistema che favorisca e promuova (ma non forzi) le aggregazioni e limiti la dispersione del voto e la frammentazione partitica. Questo sistema si può realizzare in vari modi ed esistono vari modelli, ma certo quello tedesco è il più adatto e il più sperimentato. Altro punto chiave: il rapporto tra eletti ed elettori, la fine di un ridicolo parlamento di nominati e la possibilità di scegliere i parlamentari. Anche su questo l’UDC si batte da tempi non sospetti, e chiede il ritorno alla preferenza. PD e PDL continuano a ripetere un curioso controsenso: basta ai politici nominati (come se non fossero loro i primi responsabili di questa tendenza) ma no anche alle preferenze. Questo crea un cortocircuito. Però esistono un paio di sistemi che consentono di conciliare queste due esigenze. Uno è il maggioritario di collegio, che però ha già dato cattiva prova di sé e comunque crea quelle coalizioni ammucchiate che in Italia non funzionano. L’altro, guarda caso, è il sistema tedesco, proporzionale con collegi, che non esprime preferenze ma fa eleggere i deputati sulla base del maggior consenso ricevuto.

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