Tutto ha un prezzo. Sarà triste, ma la storia insegna che tutto o quasi si può comprare con bustarelle e mazzette. Dal trono imperiale al soglio pontificio, da un regno alla salvezza fino persino alla benevolenza degli dei. La corruzione è storia antica, molto preoccupante quando riguarda il presente, curiosa e a volte persino comica quando si riferisce a racconti del passato.
Si potrebbe fare una classifica dei più clamorosi episodi di corruzione nella storia. Ci sono davvero episodi da record, proviamo a citarne qualcuno.
Mesopotamia. Nel regno di Mitanni (XVI-XIV a.C., al confine tra gli attuali Iraq e Turchia) c’è un documento processuale contro un “sindaco” della città di Nuzi che, approfittando del suo ruolo, si è reso responsabile di tutta una serie di abusi. “Dalla lettura del testo – racconta il prof. Mario Liverani - risulta evidente che la pratica di dare al pubblico ufficiale una “mancia” affinché si prenda cura del caso in questione era non solo abituale ma anche accettata come legittima; l’illegittimità sta solo nel fatto che il pubblico ufficiale, dopo aver accettato la mancia, non ricambia facendo il favore previsto”. Credo che questo episodio resti ancora insuperato.
Secondo le leggi babilonesi di cui è testimonianza il codice di Hammurabi i giudici erano costretti a depositare le sentenze in involucri sigillati così che fosse sempre possibile controllarle nel caso in cui cospicui donativi intendessero far cambiare idea al magistrato in un secondo momento. Hammurabi prescrisse di tenere lontano dal mestiere il giudice che avesse mutato un verdetto già “passato in giudicato”. Nell’inno al dio del sole e della giustizia Shamash si recita: "A colui che riceve un offerta che perverte farai subire una punizione".
Egitto. “Il pover’uomo di Nippur” dalla Mesopotamia e “L’oasita eloquente” dall’Egitto, intorno al 2000 a .C., raccontano storie parallele. In entrambi i casi un funzionario di provincia ha compiuto un evidente arbitrio a danno di un povero contadino e in entrambi i casi il colpevole trova la compatta solidarietà della classe dei burocrati: solo rivolgendosi con grande fatica al re in persona i due protagonisti ottengono giustizia. In riva al Nilo le pene per i funzionari disonesti erano pesanti: rimozione dalla carica, taglio del naso e/o delle orecchie. Eppure nella stessa epoca un saggio poteva lamentarsi nelle sue “Ammonizioni”: “Chi non aveva un pane ora ha granai, ma ciò di cui son pieni i suoi magazzini sono beni di altri”. Sullo stesso tono le confessioni che ci ha lasciato un nobile egiziano in procinto di suicidarsi, forse perché vittima di abusi oppure perché accusato proprio di corruzione: “I cuori sono avidi, ognuno prende le cose del compagno”.
Israele. Anche nella Bibbia la corruzione è citata esplicitamente più volte, ed è condannata dalle leggi: Esodo 23,6-8 “Non farai deviare il giudizio del povero, che si rivolge a te nel suo processo. Ti terrai lontano da parola menzognera. Non far morire l’innocente e il giusto, perché io non assolvo il colpevole. Non accetterai doni, perché il dono acceca chi ha gli occhi aperti e perverte anche le parole dei giusti”; Deuteronomio 16,19 “Non farai violenza al diritto, non avrai riguardi personali e non accetterai regali, perché il regalo acceca gli occhi dei saggi e corrompe le parole dei giusti”.
In Mesopotamia, Egitto, Grecia e Roma le cariche pubbliche venivano spesso acquistate, e a volte affittate o subaffittate, e così i funzionari le usavano per rifarsi, per arricchirsi, compiendo ogni sorta di abuso.
India. Il problema della corruzione non ha confini. Ci si è battuto contro Confucio in Cina, i cui insegnamenti erano tutti dedicati a creare i buoni funzionari, mentre nel IV secolo a.C. il bramino Kautilya, noto anche come Chanakya, e ministro del re indiano Chandragupta Maurya, scrisse nell’“Arthashastra” che la la prova della disonestà finanziaria di un pubblico ufficiale è “facile da reperire tanto quanto è facile scoprire quant’acqua può bere un pesce che nuota liberamente nell’acqua”. Allo stesso modo, afferma l’Arthasastra, la volontà di “non assaggiare il miele posto sulla lingua è difficile quanto maneggiare i soldi del re senza assaggiarne almeno una piccola parte”.
Grecia. Varcando le onde del Mediterraneo, in Grecia persino i più grandi eroi caddero per accuse di corruzione, certo forse anche strumentali, ma forse non senza un fondo di attendibilità. Fu il caso di vincitori dei persiani come Milziade che morì in carcere per non aver potuto pagare l’enorme multa inflittagli per l’accusa di tradimento perché, pur potendo espugnare Paro, se ne era andato senza portare a termine l’impresa, in quanto corrotto dal re (fonte Cornelio Nepote). E come Temistocle (accusato degli storici Timocreonte, Erodoto e Plutarco) esiliato da Atene proprio per corruzione, e non per un solo episodio: secondo l’accusa accettò soldi per accordare una particolare protezione agli eubei durante una battaglia con i persiani, mentre in altre occasioni estorse denaro agli andri e agli abitanti di Paro e di Caristo. Esilio anche per il leader politico Cimone figlio di Milziade, accusato di essere stato corrotto da Alessandro I il Macedone al fine di evitare una spedizione punitiva ateniese contro di lui. Nel secolo successivo i famosi oratori Isocrate e Demostene si trovarono implicati in processi per corruzione che fecero epoca. Demostene fu accusato di essersi appropriato di parte del tesoro di Alessandro Magno. A Sparta la lotta contro la corruzione era ferrea e preventiva (la costituzione di Licurgo rifiutava le monete d’oro e d’argento) ma forse la città non ne fu esente: certamente però ne fu vittima il re Agesilao che mentre combatteva vittoriosamente contro i Persiani in Cappadocia fu sconfitto da 30.000 arcieri, quelli raffigurati sulle 30.000 monete d’oro che il re di Persia usò per corrompere le città greche e far loro dichiarare guerra a Sparta.
Roma come è noto non era da meno. Il primo episodio risale addirittura ai più antichi tempi leggendari: la giovane Tarpea vendette ai Sabini l’acropoli cittadina del Campidoglio e le vite dei soldati che la difendevano. Alcuni romani furono famosi per la loro incorruttibilità, e questo fa da cartina di tornasole sulla moralità degli altri. I romani erano talmente specialisti che corrompevano persino gli dei: era il rito della “evocatio deorum”, con la quale i generali romani convincevano a suon di promesse gli dei delle città nemiche a passare dalla loro parte, a permettere la sconfitta delle città loro sedi in cambio di sedi più maestose a Roma. Caso esemplare la preghiera di Camillo a Giunone perché abbandoni Veio prima della puntuale caduta.
Gli amministratori delle province furono spesso famosi soprattutto per ruberie e intrallazzi e ognuno tornava appesantito d’oro dalla provincia di competenza. Esempio famoso è il processo intentato da Cicerone al propretore Verre che aveva letteralmente saccheggiato la Sicilia. Tra le questioni chiave della politica romana c’era sempre quella della scelta dei giudici dei tribunali sulla corruzione (de repetundis), perché senatori e cavalieri volevano ciascuno giudicarsi (e assolversi) da sé. C’era poi il sistema dei pubblicani, che appaltavano la riscossione delle tasse e garantendo una cifra allo Stato potevano poi giocare sui margini. Le grandi famiglie, poi, compravano e vendevano voti e appaltavano le cariche pubbliche. Sallustio poi ci ricorda come il piccolo re nordafricano Giugurta si potesse permettere di uscire da Roma gridando “Città in vendita” avendo fatto l’esperienza di comprare l’uno dopo l’altro i generali e i senatori che l’avrebbero dovuto contrastare. Vent’anni prima Caio Gracco denunciava alla plebe l’inganno del Senato: mentre si discuteva del destino di un territorio asiatico (se assegnarlo a un re confinante o lasciarlo libero), i senatori non parlavano per il bene comune ma in base a chi li aveva comprati, se l’uno o l’altro pretendente o persino tutti e due. Catone subì 44 processi per corruzione, e anche Scipione l’Africano fu messo sotto accusa.
Ma forse l’episodio romano più clamoroso fu quando venne messo all’asta il trono imperiale. Premesso che donativi di generali e neo imperatori ai loro soldati e ai pretoriani erano cosa comune, e persino Marco Aurelio e Lucio Vero quando erano ascesi al trono avevano elargito 20 mila sesterzi, non si raggiunse mai il livello del 193 d.C. Secondo Dione Cassio “Didio Giuliano quando seppe della morte di Pertinace si precipitò alla caserma dei pretoriani e. fermatosi al cancello, offrì ai soldati una somma per comprare il trono dell’impero. Allora fu concluso l’affare più vergognoso e infame della storia di Roma, quando, come se si fosse trattato di un mercato o di una sala delle aste, tanto la città quanto l’impero furono messi in vendita all’incanto. I venditori erano quelli che poco prima avevano massacrato il proprio imperatore; gli acquirenti erano Sulpiciano e Didio Giuliano, che cercavano di superarsi a vicenda, uno dall’interno, l’altro dall’esterno della caserma. Le offerte andarono man mano aumentando, fino a raggiungere 20 mila sesterzi per soldato. Alcuni soldati andavano da Giuliano per dirgli ‘Sulpiciano offre tanto; quanto offri di più?’, poi correvano da Sulpiciano: ‘Giuliano promette tanto; tu che offri di più?’. Sulpiciano avrebbe potuto averla vinta, in quanto stava dentro ed era prefetto della città, e fu anche il primo a indicare la cifra di 20 mila; senonché Giuliano aumentò la propria offerta di 5 mila sesterzi in una sola volta, urlando la cifra e indicandola anche con le dita della mano. Allora i soldati, attratti dall’enormità della somma e temendo contemporaneamente che Sulpiciano volesse vendicare suo genero Pertinace (idea che Giuliano aveva fatto loro venire in mente) accolsero lo stesso Giuliano all’interno della loro caserma e lo proclamarono imperatore”.
Cristianesimo. Nell’antica Roma la corruzione ha toccato anche i primi cristiani: durante le persecuzioni, se molti divennero martiri (tra loro Papa Fabiano) e altri si piegarono alle imposizioni imperiali, altri si arrangiarono e acquistarono da funzionari corrotti il libellus che attestava che avevano svolto i riti pagani richiesti.
Ma anche nella storia dei Papi non mancano episodi di corruzione, anzi. E non parliamo solo di quella corruzione morale che in certi secoli ha raggiunto tali livelli da far capire che la sopravvivenza della Chiesa e dell’ortodossia nonostante tutto sono la prova della “tutela” dello Spirito Santo. Un caso davvero eclatante fu quello di Benedetto IX, che in cambio di 650 chili d’oro nel 1045 abdicò da Papa in favore del suo corruttore divenuto Gregorio VI.
Un altro episodio che spicca sui tanti altri riguarda l’elezione di Sergio I nel 687. Alla morte di papa Conone, per essere eletto l’arcidiacono Pasquale si dette da fare presso l’esarca bizantino per ottenere la successione dietro la concreta promessa di cento libbre d’oro. Giovanni Platina accettò l’offerta e diede ordine ai magistrati imperiali che influenzavano il popolo di far eleggere Pasquale appena Conone fosse morto. Ma l’elezione non andò a buon fine e venne scelto Sergio I. L’esarca fece buon viso a cattivo gioco e abbandonò Pasquale confermando Sergio, ma pretese da lui le cento libbre già promessegli dal rivale.
Nel 532-533 l’ultimo decreto (Senatus Consultum) noto del Senato di Roma fu diretto proprio contro la simonia nelle elezioni papali e fu confermato dal re goto Atalarico. Quest'ultimo ordinò che il decreto fosse inciso sul marmo e fosse collocato nell’atrio di San Pietro. A sua volta però il re Atalarico, per “comporre comporre eventuali dispute tra laicato e clero nell’elezione del Papa”, stanziò a disposizione dei dignitari regi 3.000 solidi con cui procurare suffragi al candidato da essi prescelto. Decreto comunque di scarsa efficacia se poco dopo, nel 537, il futuro Papa Vigilio corruppe il famoso generale bizantino Belisario non solo per essere eletto ma addirittura per fargli deporre con un’azione di forza il legittimo Papa Silverio. L’azione andò in porto, anche se in seguito entrambi mostrarono pentimento per il gesto.
Medioevo. Più volte poi nel Medioevo il nuovo senato romano dovette di nuovo formalmente vietare “di trattare la successione del Papa quando c’è ancora quello vivente e di accettare doni e denaro per appoggiare un candidato al pontificato”. Furono moltissimi i processi per simonia. Anche Dante dedicò una regione del suo inferno alla simonia, e ancor più spazio riservò ai barattieri, nome con cui si indicavano appunto i funzionari corrotti, la cui bolgia è descritta nei canti 21 e 22 dell’Inferno. Certo, a Roma antica come nelle beghe ecclesiastiche come nel medioevo dantesco la corruzione era tanto diffusa che non sempre siamo certi della veridicità delle accuse, usate facilmente in modo strumentale a fini di delegittimazione politica. Resta il fatto che lo stesso fustigatore Dante fu accusato di corruzione, ed è questo il motivo per cui fu esiliato da Firenze.
Francia. Ma nessun episodio della storia è esente da questa piaga. I furori purificatori della Rivoluzione Francese non mancarono certo di episodi di corruzione. Non è calcolabile quanti nobili e altri si salvarono dall’arresto e dalla ghigliottina grazie a una mancia alla persona giusta, né quanti riuscirono a fuggire in esilio “oliando” le guardie di frontiera. Ma Basti ricordare, all’opposto, due protagonisti indiscussi del periodo. Maximilian Robesbierre venne detto “l’incorruttibile”, e questo la dice lunga su cosa si doveva invece pensare di tutti gli altri. E infatti processato e condannato per corruzione fu anche George Jacques Danton, che forse fu ancor più dell’altro una figura chiave della Rivoluzione e i cui celebri discorsi ancora infiammano i difensori dei diritti. Fu ghigliottinato per rivalità politiche, certo, ma l’accusa, non campata in aria, era proprio quella di illecito arricchimento personale.
Italia. Per chiudere riavvicinandoci un po’ nel tempo, senza cadere nella cronaca relativamente recente a tutti nota come Tangentopoli, ricordiamo che la nascita della stessa Banca d’Italia deriva da una riforma seguita a un gigantesco scandalo di corruzione, quello noto come della Banca Romana che travolse la politica italiana di fine Ottocento. Prima del 1890 la Banca Romana , una delle sei autorizzate ad emettere moneta, per coprire le sue perdite a fronte dei 60.000.000 autorizzati, aveva emesso biglietti di banca per 113 milioni di lire, incluse banconote false per 40 milioni emesse in serie doppia. Per tutelare i suoi traffici aveva lautamente pagato politici, alcuni comprovati altri solo denunciati, compresi primi ministri come Crispi e Giolitti che se la cavò ma dovette dimettersi. 22 parlamentari di primo piano furono processati, e infine assolti per la sparizione di documenti. Secondo gli storici un po’ tutte le forze politiche e gli stessi magistrati furono d’accordo nell’evitare che lo scandalo finisse per travolgere il sistema italiano.
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