lunedì 12 dicembre 2011

Si può dire "Buon Natale"?

Che cos'è il Natale? Il presepe nelle scuole, le recite dei bambini, l’albero nei palazzi, le luminarie per strada, i regali, le cene. E poi ci sono i crocefissi nelle aule. Argomenti quanto mai discussi. In nome della "laicità". Via il cristianesimo dalle feste, via ciò che indica una specificità, e come tale rischia di apparire come prevaricazione di chi non si riconosce in quelle realtà. Auguri per le feste, per la stagione, per le luci e perfino per l'inverno, ma non per Natale. Via il presepe, canzoni di Natale epurate di ogni riferimento al festeggiato. Un ragionamento che sembra non fare una piega. Quindi sarebbe giusto portarlo fino in fondo.
Il Natale esiste perché ricorda la nascita duemila anni fa nella cittadina di Betlemme di un preciso bambino, che secondo moltissime persone è Dio che si è fatto uomo. Per questo il Natale è importante. Lecito non crederlo, essere coerenti significa non festeggiarlo. Niente più feste di Natale, quindi, ma giorni di lavoro come tutti gli altri. E lo stesso per le altre feste religiose. L’Epifania, ad esempio, la Pasqua, senza dubbio, l’Immacolata, Ferragosto-Assunzione, i santi patroni.
E non si tirino in ballo presunti precedenti pagani, celtici o chissà che altro. Perché vale lo stesso discorso: se non si festeggiano le feste cristiane, nessuna vacanza neanche per quelle di qualsiasi altro culto o realtà, anche civile, se è per questo. Come, ovviamente, basta con il contare gli anni a partire, guarda caso, dal Natale. Niente più Capodanno, che rispecchia comunque una specifica cultura, niente più anni contati a partire da una data. Da una qualsiasi data: non basterebbe sostituire l’anno 1 con un altro anno 1, comunque arbitrario e quindi sospetto di prevaricazione. E per essere davvero seri, basta con l'alzarsi tardi la domenica, il giorno del Signore. Retaggio cristiano all’interno della settimana, che è di origine giudaico-cristiana ma con molti giorni dai nomi pagani, come anche i mesi. Si lavori anche la domenica, e basta contare il tempo in questo modo. Niente più feste, solo qualche giorno di ferie.
E se questo senso di laicismo è davvero serio e coerente, non deve temere di guardare in faccia a nessuno. Non ci può essere identità specifica che non evochi una differenza dalle altre identità. Quindi un mondo davvero "rispettoso" non darebbe un nome alle città, per non evocare ricordi che a qualcuno spiacciano o per non offendere magari alcuni cittadini che non apprezzano quel nome. E quanto più vale il discorso per il nome delle strade, intitolate a luoghi, eventi o persone che qualcuno ha stabilito essere importanti per qualcuno. Più onesto non turbare la sensibilità di nessuno. Si potrebbe pensare di dire ad esempio «la strada sotto la quercia», ma poi siamo sicuri che alla quercia piaccia essere chiamata così?
E già, perché l’attribuzione di nomi è un bel problema. Soprattutto nelle scienze. Chi dà il diritto, che so, di denominare le stelle? E se ci fossero mondi abitati i cui residenti non gradiscono? Un bel problema, lo studio. Si pensi all’arte. Forse per essere davvero rispettosi bisognerebbe abolire dai programmi di arte ciò che riguarda il cristianesimo, e non solo. Qualche Michelangelo, qualche Giotto, qualche cattedrale da far sparire. Ma anche le piramidi e i templi e tutto il resto. E poi la storia: la Resistenza, il Risorgimento, Roma e tutto il resto. Perché studiarli? È una scelta, e come tale va a discapito di altre, impone una linea rispetto alle infinite sensibilità possibili. Un’offesa non solo per chi non è nato in Italia (perché Italia?) ma anche per chi vi è radicato da generazioni, ma magari non apprezza questo o quello. E sì, perché poi questo è il nocciolo del problema della scuola: la scuola insegna, quindi impone. E consegna una tradizione, trasmette una cultura ricevuta. Somma ingiuria. Coerenza lo impone: basta con i pesi offensivi del passato, la cultura, la tradizione.
Un bel foglio bianco, vuoto. Ecco il mondo perfetto. Secondo alcuni.
Buon Natale.

domenica 11 dicembre 2011

L'Italia sempre più provinciale ai margini del mondo globale. Chiude Rai Internazionale

Il mondo si apre. L’Italia chiude. La comunicazione è forza, potere. L’informazione è tutto. Con essa si combattono gli scontri di oggi, si affermano le culture, si posiziona il proprio Paese sullo scacchiere mondiale. Tutti gli Stati si affannano a creare canali di informazione per l’estero, per diffondere il proprio punto di vista nel mondo. La comunicazione della propria identità verso l’estero è la chiave di molti successi, anche economici e commerciali. La diffusione della propria lingua è uno strumento di affermazione molto importante, facilita le relazioni, dà protagonismo. Coltivare le proprie comunità di connazionali all’estero permette di avere una rete internazionale vitale e molto capace di affermare la cultura, l’identità, il punto di vista e anche la simpatia nazionale diritti nel cuore dei Paesi dove vivono. Un elemento importante di tutto questo sono gli strumenti di comunicazione destinati all’estero. La tv, la radio. Non è il caso qui di ricordare il potere antico e moderno del quarto potere. Ricordare Cnn, Fox, Bbc, ma anche al-Jazira e tutto il resto. In questo contesto che fa l’Italia? Chiude la sua rete di questo tipo, Rai Internazionale. Certo, Rai Internazionale ha risentito del sistema carrozzone della Rai. Ha funzionato forse poco e male. D’altro canto si è investito poco (e male), non solo in denaro ma anche impegno, intensità, creatività. Non ci hanno creduto. Non hanno creduto che l’Italia potesse uscire dal suo ruolo provinciale. Certo, ora è tempo di tagli, c’è una crisi vera. Non possiamo più permetterci di sprecare soldi. E una Rai Internazionale inutile è uno spreco. Ma forse ora più che mai sarebbe invece il momento di rovesciare l’approccio. Forse proprio ora per essere all’altezza della competizione internazionale, per mettere le basi di elementi di crescita economica sullo scenario globale, forse è il caso di puntare su uno strumento di proiezione internazionale dell’Italia. Su Rai Internazionale c’è bisogno di rimboccarsi le maniche, non di chiudere il 31 dicembre.

Prendo in prestito dal mio amico Marco:
Pakistan, Giappone, Cile, Turchia, Russia, Venezuela, Australia, Olanda, Spagna, Repubblica Ceca, Slovacchia, Taiwan, Marocco, Indonesia, Israele, Malesia, Mongolia, Filippine, Nigeria, Tunisia, Corea del Nord, Corea del Sud, Azerbaijan, Belgio, Grecia, Gran Bretagna, Francia, Austria, Germania, Portogallo, Canada, Iran, Cina, Polonia, Serbia, Svezia, Svizzera, Ucraina, Argentina, Brasile, USA, Nuova Zelanda, Bosnia Erzegovina, Finlandia, Cuba, Brunei, Myanmar.
Sono solo alcune delle nazioni che hanno un canale pubblico radio-televisivo internazionale, cioè con una programmazione specifica dedicata all'estero. Dal 31 dicembre 2011, con la chiusura di Rai Internazionale, l'Italia non farà più parte di questo elenco di paesi. Ne deduco che abbiamo meno cose da dire al mondo, via radio o via televisione, di quante ne abbia il Brunei. E che abbiamo meno connazionali all'estero da raggiungere di quanti ne abbiano l'Austria o la Nuova Zelanda.

venerdì 2 dicembre 2011

Governo tecnico e buona comunicazione. E i partiti tornino a fare politica, che vuol dire costruire il consenso invece di inseguirlo

È stato notato il radicale mutamento nello stile di comunicazione di questo governo rispetto ai lustri più recenti. È una questione che investe con evidenza l’istituzione governo, in confronto coi precedenti, ma il segno del marcato cambiamento va ben oltre, in quanto è fortemente percepibile come sia cambiato l’ambiente della comunicazione, lo stile di tv e giornali. Niente più lustrini e fuochi d’artificio, ma molta, molta sobrietà. È un buon segnale, il simbolo più evidente di quello che auspichiamo possa essere un più profondo cambiamento sociale all’insegna della serietà e della responsabilità. È un cammino lungo e faticoso e pieno di incertezze, ma è un buon cammino.
Però deve essere chiaro che il silenzio non equivale alla soluzione di una comunicazione migliore. Comunicare meglio, con più sobrietà e serietà, è l’obiettivo. Ma è necessario comunicare. Ben venga quindi la presenza del presidente Monti in tv. La rinuncia alla perniciosa politica degli annunci e della propaganda non vuol dire smettere di comunicare. E non basta neanche pretendere di comunicare con i fatti. Primo, perché i fatti di questo governo avranno bisogno di tempo per manifestare gli effetti positivi. Secondo perché comunicare vuol dire mettersi in sintonia con chi deve ricevere il messaggio, significa farsi capire, non arroccarsi e pretendere che il ricevente decodifichi un messaggio che non è adeguato a lui. Questo è il rischio di questo governo di tecnici e professori che potrebbe pensare di non avere bisogno del consenso. Al contrario, ne ha molto bisogno. Deve parlare con la gente, deve fargli capire quali misure vengono prese e perché, deve  provvedere a spiegare bene che i sacrifici sono necessari in vista di un miglioramento e in contrapposizione al rischio serio di un peggioramento. Deve trovare il modo di dire la verità, e di farla digerire. Non può stare arroccato.
Anche in questo i partiti devono aiutare il governo. Prima di tutto devono smetterla di nascondersi dietro un dito, di approfittare del governo tecnico per scaricargli tutte le responsabilità e rifarsi una verginità elettorale. È il tempo dell’assunzione della responsabilità, è il tempo di mettercela tutta per salvare il Paese, è il tempo nel quale bisogna essere orgogliosi di fare il proprio dovere – sia esso tecnico, politico o civico, ciascuno secondo i ruoli – per contribuire a rilanciare l’Italia. Il governo dev’essere la punta di diamante di quest’impresa, non l’elemento dietro cui mascherare le proprie impotenze. Ma non basta che i partiti si limitino a non ostacolare e contraddire la comunicazione del governo. Devono fare di più. Proprio per la loro responsabilità politica, per il loro ruolo di rappresentanza, per la loro presenza sul territorio nazionale, devono assumersi la responsabilità di cinghia di trasmissione del governo. Devono fare da tramite con i cittadini, assumersi in pieno la responsabilità di spiegare ai cittadini quanto sta avvenendo. Devono fare politica nel senso più pieno e nobile, devono dimostrare davvero di essere classe dirigente, cioè capace di guidare. La comunicazione politica finora è stata inseguire i sondaggi e cercare di capire cosa la gente voleva sentirsi dire, per guadagnare consenso. È tempo di tornare a costruire il consenso, che è cosa diversa e investe la propria responsabilità. Significa smetterla di far la gente contenta e imbrogliata, e piuttosto ricominciare a indicare mete che vale la pena di raggiungere ma che richiedono l’impegno di tutti. Bisogna aggregare i cittadini intorno a impegni e obiettivi, non solo con promesse a vanvera.

mercoledì 30 novembre 2011

Perché non temo i partiti islamici. Ma posso temere la nostra debolezza.

Anche in Egitto come in Marocco e Tunisia i partiti islamici vincono le elezioni. Era successo anche in Iraq e prima ancora in Turchia. Quando il voto è libero, a volte per la prima volta in assoluto nella storia, i partiti di ispirazione cosiddetta religiosa, fino ad allora emarginati se non perseguitati, vincono. Ben venga, dico io. E' normale. Semplicemente questo vuol dire che quando possono scegliere, tanto più dopo decenni di oppressione o almeno di illiberalità, i cittadini scelgono di rimettere in pista i loro valori più profondi. Certo, non tutte le religioni sono uguali, non tutte le interpretazioni politiche sono garanti di libertà e rispetto dei diritti. Ma non è questo il punto. La democrazia non nasce con un click. C'è da fare un cammino. Noi occidentali dobbiamo vigilare sugli sviluppi delle democrazie più giovani, ma più ancora sono interessati a vigilare gli stessi cittadini che ora vanno al voto. Non c'è nulla di strano che questi stessi cittadini ritornino ad elementi basilari della propria cultura. Ai principi base, sia immanenti che trascendenti. Anche perché dopo tanti anni di assenza della democrazia è anche difficile che si sia formato uno o più  pensieri politici  di massa capaci di organizzarsi in strutture adatte a vincere le elezioni. Con principi che invece stanno nel sangue della gente anche a prescindere dalla politica, anche nel prepolitico, è più facile e naturale ritrovare pronta una piattaforma politica-elettorale valida, coerente e rassicurante. In realtà più ancora che religiosa la questione è culturale: l'applicazione politica della religione è elemento controverso, sappiamo bene che nell'islam il confine è labile, ma sappiamo altrettanto bene che molte cose che vengono spacciate come islamiche sono a volte solo interpretazioni, altre volte addirittura elementi derivanti dalle culture locali e non dalla religione.
Quindi quello che vorrei dire è di non cadere nelle trappole di un certo laicismo militante che pervade l'Europa e si espande senza capacità interpretative anche su aree ben diverse dalle nostre. Se il laicismo è un'ideologia dogmatica che mal comprende le realtà europee e ha pretese di imporsi, tanto meno vale per il Medio Oriente. A partire dal fatto che molti partiti islamici non sono "cattivi" come sembrano, ma semplicemente leggono la loro realtà alla luce del loro impianto culturale che come detto non è opprimente verso i propri cittadini ma al contrario spesso li rappresenta. Molti di quei partiti hanno "pulsioni" fortemente democratiche e rispettose, e se esistono (e preoccupano) le opposte pulsioni fondamentaliste, è altrettanto pericoloso impedire a un popolo di svilupparsi secondo i suoi propri elementi culturali. Naturalmente bisogna vigilare sul rispetto di diritti fondamentali, bisogna prevenire involuzioni, bisogna collaborare con le realtà locali per sviluppare tutti gli elementi necessari a una vera mentalità democratica (dall'informazione all'istruzione, non bastano le elezioni). Bisogna portare quelle società e quei partiti (che le elezioni dimostrano essere i più rappresentativi nella società) nell'alveo delle regole e del rispetto dei diritti. Ci vuole tempo. Bisogna prenderselo e perseguire gli obiettivi con tenacia, ma dividere il mondo in buoni e cattivi e strapparsi i capelli perché democraticamente hanno vinto quelli che non ci piacciono o ci piacciono meno non aiuta la democrazia ma la spinge in un angolo rafforzando i suoi nemici. Più che mettere al bando interi movimenti politici molto rappresentativi, dovremmo saper discriminare con serietà in base al rispetto di diritti specifici.
E poi un'ultima riflessione: perché non ci piacciono questi partiti? In parte, lo abbiamo già detto, perché non li conosciamo e ne abbiamo una versione caricaturale, per cui per evitare la fatica di comprendere la realtà e di approfondire un contesto culturale diverso dal nostro è più facile generalizzare. Ma allo stesso tempo non si può negare che esistano princìpi che noi non condividiamo e non possiamo condividere, anche al di là del rispetto di culture e sensibilità diverse. E questo spesso più che indignarci per quanto accade laggiù ci spaventa per quanto potrebbe accadere da noi. Ma questi timori sono un segno di debolezza e mostrano forse la fragilità della nostra sponda. Se infatti siamo davvero convinti che i nostri princìpi sono migliori degli altri (e in certi casi io ne sono convinto, non mascheriamoci), allora dobbiamo anche aver fiducia che questi valori possano vincere sui impostazioni più oppressive, false e dannose. Anzi, che i valori buoni, se ben testimoniati, tendano naturalmente ad espandersi conquistando le aree dove non è più la forza a imporre disvalori di stato. Non è facile, ma è tendenzialmente naturale. Se siamo saldi noi. Sono loro quindi che devono "temere" la forza dei nostri valori, inevitabilmente destinati a prevalere in uno sviluppo di confronto sereno. Non siamo noi a doverci sentire minacciati. A meno che non siamo noi stessi a sentirci in realtà deboli e poco convinti. Sia culturalmente che religiosamente. Ecco, questo è un altro tema, e pur partendo da loro e dai loro partiti, in realtà riguarda noi e le nostre coscienze.

giovedì 24 novembre 2011

Dopo il Carnevale la Quaresima. L'era dei sacrifici, "rendere sacro".

Il mondo sta cambiando, sta cambiando più vicino a noi la politica italiana. Il passaggio al governo Monti da qualcuno è stato definito come il passaggio dal Carnevale alla Quaresima. Simpatica battuta la cui ironia, forse un po' anche denigratoria, coglie però proprio l'essenza di quanto auspicabilmente sta accadendo in Italia, e quello che dovrà accadere. Abbiamo vissuto un periodo di Carnevale. Non solo le carnevalate del berlusconismo, plateali. Ma a un livello socio-culturale più ampio il carnevale delle maschere, quello del non guardare in faccia la realtà. Di non prendere le cose sul serio. Di vivere al di sopra delle nostre possibilità. Di pensare a scherzare e a divertirsi invece che a costruire. Un periodo di dimenticanza della responsabilità. Vale per la politica, ma vale un po' èer tutti noi, e vale per tutto il mondo, almeno per quello che il Carnevale poteva permetterselo, l'Occidente opulento e chi ad esso si è potuto accodare. Un Carnevale che ha avuto il suo trionfo negli ultimi anni, nella finanza spericolata e nella politica spettacolo (e non solo la politica), ma che era già ben visibile negli anni Ottanta-Novanta, e che affonda le sue radici nel sessantottismo. Nell'apoteosi dell'ideologia dell'irresponsabilità e dell'individualismo, della distruzione dei valori, del senso di responsabilità, dell'autorità, della verità. Stiamo vivendo una crisi che paradossalmente è lo sviluppo e il frutto di qualcosa che pensava di essere nato per contrastare quello che invece ha causato. Certa finanza spericolata e anche Berlusconi sono i figli meglio riusciti di quella lotta senza tregua ai valori morali.
Dopo il Carnevale la Quaresima. Qualcuno vede questo passaggio con rassegnazione, con tristezza. Non è così per chi sa a cosa serva la Quaresima, quale sia il suo significato più profondo. La Quaresima è un periodo di preparazione. E' un periodo di riflessione, di recupero della propria interiorità, della propria identità più vera e profonda. E' un periodo in cui si medita sulla propria vita e si cerca di migliorarla. Di convertirsi. E' un periodo che è sì anche di penitenza, di sacrificio, di sobrietà, di astinenza, ma lo è per un obiettivo, per un miglioramento, per un premio finale molto più grande e desiderabile. Non è un periodo di sofferenza fine a se stessa, di rinuncia per mortificarsi. No, l'esito della Quaresima è la Pasqua di Resurrezione. Strano che non lo si riesca a capire in un mondo che è così fanatico dei sacrifici per le cose inutili (a quale categoria appartengono se non a questa le diete, il fitness, gli allenamenti, il mettersi in coda...) e poi non è capace di concentrare uno sforzo per le cose veramente importanti.
Questo deve riscoprire l'Italia e il mondo, per il nostro bene. La quaresima come periodo di ritorno alla responsabilità, al rimettere in carreggiata il veicolo della nostra storia che timonieri ubriachi avevano fatto deragliare. La Quaresima come periodo di sacrifici, dando a questa parola la connotazione originaria tutt'altro che negativa: sacer facere, rendere sacro. Dare un senso ai propri sforzi, al proprio impegno. Saper faticare, saper fare rinunce, ma per ripristinare prima la giustizia e poi il futuro. Perché il premio vale lo sforzo. Questa etica è quella che dobbiamo recuperare, in tutti i campi, nella nostra vita quotidiana, e anche a livello di nazione, di Europa, di mondo. La quaresima per riscoprire l'etica del sacrificio con la finalità di un obiettivo che valga la pena.

lunedì 14 novembre 2011

Il corvo. Calunnia, verità, ipocrisia, relazioni sociali

Abbiamo assistito a un bellissimo spettacolo teatrale della nostra amica Chiara. E' "Il Corvo", di James Valley. Niente a che vedere con il film e nemmeno con Poe. In scena al teatro Tor di Nona di Roma fino al 20 novembre (vale la pena, attori bravissimi, profitti in beneficenza, e storia appunto assai stimolante). La storia è quella di un piccolo paese della Francia degli anni 30 dove lettere anonime firmate dal Corvo rivelano gli scandali segreti veri, presunti e anche falsi di tutti gli abitanti. Facile immaginare come questo crei il caos, il clima di sospetto e di diffidenza, la frattura delle relazioni. Dal sindaco al parroco, dall'ospedale alla gente comune, tutti sono presi di mira. E poi subito scattano gli imitatori, per cui alle prime maldicenze ne seguono subito altre in stile simile (biglietti rossi) ma di mano di versa. si approfitta per regolare i conti, per divertirsi, per pazziare. La morale della piece è evidente: la condanna della calunnia che semina il male, ferisce le persone, disgrega la società. Messaggio forte e chiaro, sicuramente costruttivo e condivisibile.
Ma si può aggiungere un secondo livello di lettura. Infatti alcune delle accuse rivolte dal Corvo sono vere. Una riflessione più profonda fa pensare su come le relazioni sociali si basino su una certa dose di ipocrisia, di segreti, di cose nascoste. Certo, per non spingersi oltre il baratro del moralismo giacobino, bisogna subito mettere un punto fermo: il corvo e i suoi emuli hanno due difetti insuperabili, le loro denunce sono anonime e soprattutto mescolano verità e falsità, avvelenandole e quindi non dando un contributo alla verità. A volte poi anche quando dicono il vero lo dicono da un punto di vista parziale e deformato per cui cambiano il senso delle azioni. Quindi, per essere chiari, la morale finale della piece non va toccata: la condanna della calunnia come forza insidiosa e disgregante ha tutto il suo pieno valore. Però resta il fatto che la comunità del paese, come tutte le comunità umane, viveva basandosi su una forte radice di non verità, e in qualche modo proprio le lettere del corvo mettono in moto un meccanismo che alla fine porta alla verità e migliora quindi la qualità della vita stessa del paese e delle relazioni umane. Questo è il punto che mi fa riflettere: quanto sia necessaria una certa dose di ipocrisia nei rapporti umani, nelle relazioni sociali, anche per tutelare una riserva di vita di ciascuno. Ma se la verità è ciò che fonda una vita più vera, più profonda, più umana, non sarebbe meglio portare tutto alla luce? Nascondere la verità non è solo di chi ha qualcosa di cui vergognarsi? Eppure forse tutti abbiamo qualcosa da nascondere, qualcosa che in piena luce noi stessi faticheremmo a riconoscere come nostro. E pi viene da pensare ai giorni di oggi, ai tanti scandali, segreti, impicci che ogni tanto affiorano, anche se poi tornano nel mondo della penombra e dell'oscurità, essendo forse più minacciosi proprio perché giacciono lì, in uno strato di semiverità pendente come la spada di Damocle.
Eppure credo che davvero la verità meriti sempre una chanche, sia l'unica strada, l'unica soluzione. La verità ci farà liberi, essa è la via. quando emerge è salvifica anche quando brucia. Ma con una riserva fondamentale: la prima verità è che dobbiamo riconoscerci creature, limitati, deboli. La verità è più grande di noi. Quindi è giusto perseguire la verità. E' giusto augurarci che tutto, anche i rapporti sociali, siano animati dalla verità più che dalla ipocrisia. Ma nessuno di noi possiede la verità. Nessuno la conosce tutta intera. Quindi nessuno può proclamarsi giustiziere della verità. Servitore della verità, quello sì, e meglio se della Verità con la maiuscola, quella che non a caso non è mai disgiunta dall'amore e dal senso del limite. Quella di Colui che oltre ad essere Verità è anche Via e Vita. Questo ci aiuta a capire come dobbiamo vivere alla luce, dobbiamo cercare la verità, ma non dobbiamo cadere nella tentazione di violare quella riserva di umano che è lo spazio in cui ciascuno di noi può maturare la sua storia. Meno ipocrisia possibile nei rapporti sociali, ma anche un cuore abbastanza grande da reggere al contempo la verità e il rispetto degli spazi altrui, l'accettazione del fatto che la verità ha un unico Volto, ma nella dimensione umana ha anche molte sfaccettature che nessuna di noi creature finite può cogliere per intero.
Niente corvi, quindi, per denunciare i segreti degli altri, ma solo il necessario sforzo di ciascuno di noi di essere più veri nel proprio cuore, e di servire la verità senza nascondimenti, quando necessario. Auguriamoci quindi più verità, molta più verità nella nostra vita, e nei nostri rapporti sociali. Bandiamo l'ipocrisia. Ma non cadiamo nella trappola di identificarci nella verità.

giovedì 3 novembre 2011

Finalmente ricominciano i reality in tv

Finalmente ricomincia la stagione dei reality in tv. Ne sentivamo la mancanza. Case, isole, fattori, pupe, stelle e quant’altro finalmente riprenderanno il posto che spetta loro. Chissà se ci aiuteranno a lasciarci alle spalle lo spettacolo degli altri reality che ci hanno tormentato: i reality dello spread e delle borse mentre la vera crisi economica è qella che morde ciascuna delle nostre famiglie; i reality dell’orrore che ogni estate ci vengono propinati senza mai chiedersi perché sia diventato tanto facile assistere a violenza tanto feroce; i reality delle case, delle escort, degli scambi di favori, dei linciaggi mediatici che hanno preso il posto della politica; dello scambio continuo di accuse e minacce, di paure e di finte fiducie che vedono protagonisti i signori di questo bipolarismo fazioso e lacerante, mentre il paese soffre e nessuno fa nulla; i reality del disfacimento quotidiano dei grandi partiti, tra liti , distinguo e personalismi; i reality dei falsi scandali che ci vengono propinati e poi improvvisamente nascosti, lasciandoci il sospetto di essere manipolati; i reality della corruzione sempre più diffusa, dove si vede un manipolo di soliti noti arricchirsi sulle spalle della gente per bene; le telenovelas sulle vite sbrillucicanti di presunti vip che sulle copertine sembrano sempre felici e invece non valgono nulla. E così via.
Ma un difetto ce l’hanno anche i reality televisivi, un difetto che forse si può migliorare: dopo tanto sforzo per selezionare quei particolari soggetti che danno tale mostra di sé davanti alle telecamere, perché sprecare tutta questa fatica facendoli poi uscire? Non sarebbe meglio chiuderli in casa, lasciarli sull’isola? Perché se il mondo fuori sembra farci schifo (ma chissà che se guardiamo dentro di noi non scopriamo un mondo reale che può essere assai migliore), certo il modello non sono quegli istrioni chiusi dentro la scatola della tv. Possiamo farne a meno.

lunedì 31 ottobre 2011

Obiezioni e riflessioni su Todi, parte seconda

E finalmente eccomi qui a provare a mantenere la promessa di riportare e commentare le riflessioni fatte con gli amici su Todi. C'erano state diverse obiezioni, ragionevoli e diffuse, ma che a mio avviso hanno senso se sono prese come stimolo per fare dei progressi su un cammino giusto e inevitabile, quello del comune impegno dei cattolici anche nell'ambito socio-politico (e non solo socio-assistenziale).
Procediamo per flash.
L'obiezione più forte e articolata è quella che va alla radice, negando che serva un impegno maggiore e più coordinato dei cattolici in politica. Secondo chi la sostiene il ruolo svolto finora dai cattolici nella politica e nella società è ottimale, ha ottenuto buoni risultati, e qualunque forma di maggior coinvolgimento comporterebbe dei passi indietro, un indebolimento e forse una ghettizzazione. A titolo di esempio vengono riportati come grandi successi dei cattolici in questi anni la Legge 40 e la vittoria nel successivo referendum, la legge sul biotestamento (che pur non ancora definitivamente approvata avrebbe già avuto l'effetto di prevenire altri casi-Eluana da parte della magistratura), lo stop ai riconoscimenti delle coppie omosessuali (Dico e company). Allo stesso tempo si mette in evidenza come i cattolici siano quasi per natura costantemente divisi, e che comunque non esista una via cattolica ad affrontare la maggior parte dei problemi della vita socio-politica-economica, per cui quel che conta è solo l'unione in difesa dei valori non negoziabili. Ragionamento che è palesemente ben fondato e radicato nella storia degli ultimi anni, ma che non mi convince molto. Non mi ha convinto fino adesso, figuriamoci per quel che riguarda il prossimo futuro, che tutti prevedono assai diverso. Certo, il rischio di una contrapposizione ghettizzante c'è, tutti da una parte quelli che la pensano in un modo, e tutti dall'altra gli avversari. Non ci vedrei niente di male, ma non si può negare che comporti un rischio strategico: finché vinci hai il pieno controllo, ma se per caso perdi rischi che la controparte mette in attuazione un programma sistematicamente nemico dei valori in cui crediamo. Un po' il modello Zapatero. E' un calcolo da fare, una problematica da tenere in considerazione. Così come non va certo sminuito il lavoro di difesa dei valori che è stato fatto con tanta fatica in questi ultimi anni, nonostante un clima ostile a livello di media e apparentemente di opinione pubblica. Ma è proprio qua il punto. Lo scontro più acceso con chi difendeva questa posizione è avvenuta sull'interpretazione di certe parole calcistiche. Mi perdonerete se lo ripeto senza voler dare alle parole più peso di quel che abbiano, ma per provare a spiegare le visioni che ci sono dietro (almeno la mia). Per me la tattica dei cattolici in questi anni di bipolarismo è stata catenacciara, abbiamo giocato molto in difesa, ottenendo senz'altro dei risultati ma arretrando il nostro baricentro e lasciando l'iniziativa agli avversari, e secondo me se giochi sempre in difesa con un avversario dai mezzi più potenti prima o poi un gol lo prendi. Certo, in Italia il catenaccio ha sempre reso molto, e non dite a Trapattoni che io lo vedo come uno strumento perdente... però fatemi sviluppare il mio ragionamento. Chi mi si contrapponeva nel dibattito, per altro, non difendeva il catenaccio, ma diceva che questi sono stati anni arrembanti, all'attacco, dove promuovere e ottenere cose come la legge 40 e quella sul biotestamento sono segni di un atteggiamento giocato all'attacco e vincente (chi le ha fatte le leggi, mi fanno notare, e chi le ha portate a casa?). Aggiungono polemicamente che non è certo detto che gli stessi risultati si otterrebbero con un partito cattolico (ai tempi della DC, ricordano, furono approvati divorzio e aborto), e con una punta di veleno sostengono che a Todi di valori non negoziabili non si è parlato (lo dicono loro) perché i convenuti sono prontissimi a negoziarli con la sinistra in cambio di potere. Ribadisco, obiezioni valide e fondate, che solo il tempo dirà se si confermeranno. Ma io la vedo diversamente.  E forse non solo io. Vorrei guardarmi dal
tirare in ballo più alte autorità a difesa delle mie idee, ma con il debito rispetto e l'attenzione alla possibilità di interpretazioni diverse non posso qui non notare che da alcuni anni il Papa e la Cei non fanno che ripetere l'appello a una nuova generazione di cattolici impegnati in politica. Cioè rimarcano la necessità che i cattolici tornino ad impegnarsi generosamente anche in questo campo. Evidentemente per invertire una tendenza che non deve dare piena soddisfazione, altrimenti si lascerebbe andare le cose come stanno. Si sente invece l'esigenza di alti appelli per cambiare queste cose, che quindi non sono da difendere a priori. Secondo me, infatti, il lodevole impegno di uomini politici cattolici sparsi per i vari schieramenti finora ha potuto solo limitarsi  sulla difensiva, e non sempre con pieno successo. A me sembra che nel PD, per parlare esplicitamente di elementi politici, con la promessa poi di lasciarli, l'elemento cattolico è stato abbastanza emarginato, come per altro dimostra la costante migrazione ad altri lidi di numerosi esponenti cattolici. Nel PDL vale un discorso diverso ma equivalente nella sostanza: il centrodestra a parole ha un atteggiamento di condivisione e difesa dei valori tradizionali cattolici senza le complicanze che esistono a sinistra, ed è altrettanto evidente che senza il centro-destra quelle leggi sopra citate non avrebbero mai visto la luce. Ma è altrettanto evidente che a tante parole sono seguiti pochi fatti, e questo lo dicono per primi gli esponenti del PDL. Inoltre nella linea politica del PDL l'incidenza dei cattolici appare a molti irrilevante. Sia a destra che a sinistra, comunque, mi sembra che i cattolici manifestino una certa subordinazione alle linee politiche prevalenti, e pongano la loro autonoma e specifica azione politica al di sotto di elementi di fedeltà allo schieramento politico cui appartengono. Questo atteggiamento (che in tutta onestà si trova presente seppur in forme e quantità diverse in ogni partito della seconda repubblica, compresi il centro e la Lega, ad esempio), mette il pensiero cattolico e le loro scelte politiche in secondo piano rispetto ad altri indirizzi del pensiero. Per altro la cosa non mi stupisce, in quanto a mio avviso è esattamente la stessa cosa che avviene nella società. Inevitabile quindi che sia in politica che nella pubblica opinione certe posizioni cattoliche, anche quando vincenti, appaiano come battaglie di retroguardia. E come tali, a mio avviso, destinate inevitabilmente a erodersi e quindi a preparare sconfitte future. E' esattamente questo che intendo quando dico che i cattolici hanno giocato in difesa: certo, sono state vinte delle battaglie, ma il fronte di guerra è in arretramento. Se ci si limita a raccogliere le forze per dire no su temi senz'altro fondamentali e indiscutibili, questo no verrà sempre meno compreso e avrà sempre meno la forza di raccogliere consensi tali da permettere di vincere. Certo, giocare in campo aperto è rischioso, ma l'obiettivo deve essere quello di spiegare le valide ragioni dei sì più veri e profondi, tali da giustificare ampiamente i no che non sono a priori ma frutto di scelte ben precise e positive, direi addirittura convenienti, frutto di una visione dell'uomo e della società che accresce il bene comune. Altro che ridurre gli spazi dei diritti. Questo io intendo per giocare all'attacco, e per fare questo ci vuole una squadra consapevole dei propri mezzi, che faccia gioco di squadra, e che sia in grado di dettare l'agenda dei temi. Ecco, questo è il punto: nella seconda repubblica (specie nella seconda parte, non dimentichiamo che alcuni successi citati risalgono infatti a qualche anno addietro) l'agenda delle tematiche è aggressivamente proposta da realtà ben diverse dal mondo cattolico, che nelle migliori delle ipotesi è riuscito a rintuzzare gli attacchi. Ma non è mai riuscito a imporre all'attenzione della società i suoi temi come prioritari. Esempio eclatante è la famiglia: nonostante i meritori sforzi di alcuni, il mondo cattolico non ha certo ottenuto che questo fosse il tema centrale del dibattito pubblico e dell'azione politica. Molti ne parlano e fanno promesse, ma il tema è del tutto marginale nei fatti, anzi è addirittura penalizzato dalle crisi. Altri hanno portato temi come fecondazione assistita, coppie di fatto e omosessuali, eutanasia, omofobia: su questo per ora la linea ha (faticosamente) resistito, ma sono sempre stati altri a scegliere il campo di battaglia, mente gli alleati hanno acconsentito a difendere (senza entusiasmo) questi principi, in cambio però di ben consistente sostegno alle cose di loro interesse. E poi, è vero che non esiste un modo cattolico di aggiustare i tombini, ma certo esiste un pensiero sociale coerente cristiano che peraltro è condiviso da molti non cristiani proprio perché non è un aspetto confessionale e settario ma è una visione sul mondo e sull'uomo, è una proposta di società, ed è qualcosa che si basa su solide radici anche logiche che sono quelle che vanno spiegate e anche propagandate. Quindi non c'è nulla di male che i cristiani si confrontino prioritariamente tra loro per avere progetti da proporre agli altri. Non dovranno essere tutti d'accordo necessariamente anche sugli aspetti non essenziali alla fede, ma certo è più probabile che dalla comune fede ed esperienza di vita scaturisca una visione simile. E qui torna il discorso della capacità propulsiva nella società, favorita certo dalla condivisione se non proprio dall'unità: capacità propulsiva nell'opinione pubblica (un aspetto della nuova evangelizzazione), nella società, e anche in politica che è l'ambito dedicato a fare queste scelte di indirizzo, orientamento e regolamentazione della società perché diventi possibile realizzare queste visioni. Non dovranno necessariamente convivere tutti all'interno di un unico partito confessionale, ma certo non potrà considerarsi uno scandalo se anche in politica persone con analoga visione, analoghe priorità e analoghi progetti possano lavorare insieme.
Di qui passo a un'altra obiezione opposta che è stata sollevata nell'ormai celebre cena: e allora perché non fanno un partito dove stare tutti insieme e dove dire manifestamente senza ipocrisie quali sono obiettivi e progetti? Anche questa obiezione è sensata, e secondo me segna una direzione più che probabile di un possibile sviluppo del protagonismo dei cattolici anche in politica. Ma non è uno sviluppo inevitabile, e non è neanche necessariamente il migliore auspicabile. E comunque non pare quello più immediato. Più urgente e più a portata di mano pare invece la realizzazione di un coordinamento dei cattolici, un movimento dei movimenti e delle associazioni, che sappia confrontarsi al suo interno (da troppo questo non avviene soprattutto in relazione agli ambiti socio-politici) e sappia poi confrontarsi con le realtà più propriamente politiche (partiti e governo) con una voce il più possibile univoca e forte, e anche con adeguati mezzi di pressione (ad esempio in democrazia il primo è la capacità di votare che sostiene le nostre idee e di non appoggiare chi invece è loro ostile o comunque non mantiene gli impegni).
A questa realtà è stata opposta un'altra obiezione che mi sembra molto importante: ma questo strumento di condizionamento, questa lobby, non è un mezzo ipocrita? Non è una realtà che poi resta invischiata nelle beghe della politica senza essere protagonista? Non finirà per rinunciare a una parte importante della propria identità in cambio dell'appoggio a una fazione politica? Ovviamente non condivido l'obiezione sull'ipocrisia: anzi, un coordinamento cattolico agirebbe alla luce del sole. Mi sembra un processo alle intenzioni. Bisognerà vigilare: le idee camminano sulle gambe degli uomini, e atteggiamenti ipocriti, vili, interessati sono sempre possibili. Ma non si può rinunciare ad agire per timore che forse qualcuno un giorno potrebbe agire male. Mi preoccupa di più il fatto che questo coordinamento sia poi realmente in grado di incidere correttamente sulla vita socio-politica italiana dal punto di vista dei valori e della visione cattolica: la preoccupazione è che il movimento sia consapevole di avere la forza di incidere e la usi, che sappia interagire con tutti ma non tema di mantenere la barra dritta, che sappia dire dei no e che sappia appoggiare davvero chi difende la stessa linea. Che non siano solo chiacchiere, quindi, e che non si resti invischiati nel politicamente corretto, nel voler essere per forza amici di tutti, che ci si faccia subito annacquare in una rete di relazioni e interessi che lasci dimenticare gli Interessi con la i maiuscola. Il punto che però più mi stimola di questo gruppo di obiezioni è l'ultimo: ma questo movimento appoggiando un partito non finirà per sottometterglisi? Qui torna a galla un aspetto più volte evidenziato, cui forse sono io ad essere ipersensibile. Chi lo dice che il pensiero cattolico in politica debba per forza essere subordinato agli altri? Debba inevitabilmente essere ausiliare, e destinato ad essere assorbito? Perché questo senso di inferiorità e di inevitabile gregariato? Mi sembra che quello che possa  debba accadere sia esattamente il contrario. il pensiero forte anche nel sociale e quindi nel concreto agire politico è quello cristiano, l'unico che abbia un livello anche di elaborazione culturale superiore, l'unico che regga alla prova dei fatti e anche del tempo. Se negli ultimi anni sono scomparse le ideologie e falliti i progetti postideologici, questo da un punto di vista di elaborazione culturale, social e politica (nel senso alto del termine) non solo non ha coinvolto il pensiero cristiano, ma anzi a lasciato che esso sia l'unico rimasto in campo con autorevolezza ed efficacia. Non vedo perché allora debba essere subordinato ad altri modi di pensare che si autodefiniscono vincenti ma che hanno fallito tutte le prove di fatti. Questo è il punto cruciale del mio ragionamento e del mio modo di pensare. A un livello più concreto e spicciolo si incarna nel rovesciamento dell'obiezione posta: perché un eventuale movimento dei movimenti dovrebbe finire per essere sottomesso e corrotto da un partito? Non dovrebbe avvenire esattamente il contrario? Non dovrebbe cioè il movimento cattolico avere la forza di condizionare i partiti ed il partito, irrorandolo con le sue idee, i suoi ideali, i suoi progetti, la sua forza vitale, la sua energia morale, i suoi uomini e donne? Non dovrebbe essere il movimento, grazie alla sua forza ideale, progettuale e anche elettorale, a tenere la barra dei partiti di riferimento, piuttosto che il contrario?
In breve un'ultima obiezione (non ricordo se le ho esaurite tutte, nel caso - è una minaccia - ci ritorno): a Todi troppe poche donne e troppi pochi giovani. E' possibile. Ma questo non è un difetto dell'incontro di Todi. Se è vero (e per la verità altre fonti sminuiscono sensibilmente questo aspetto) questo può essere il sintomo di un problema nella Chiesa e nelle associazioni, non altro. Nulla ha a che fare con la scelta di un confronto sui temi della politica. Nel senso che non c'è stata una selezione ad personam dei presenti a Todi: sono stati invitati i rappresentanti delle associazioni e dei movimenti. Forse ci sono troppi pochi giovani e donne ai vertici (ma per certe cose è un caso: vedi l'Azione Cattolica), e allora questo offre lo spunto per una riflessione e una azione all'interno dei movimenti. Ma non inficia in alcun modo lo spirito di Todi.

giovedì 27 ottobre 2011

Cattolici in politica tra astensionismo e voglia di impegno

I cattolici sono quelli che per natura ed educazione, direi per missione, tengono di più al bene comune, e sono anche pronti a dare del loro per il bene comune. Se cedono i cattolici, siamo allo sbando. È quindi un grido d’allarme quello che emerge dal sondaggio sul comportamento politico dei cattolici commissionato all’IPSOS dalla Fondazione Achille Grandi per il Bene Comune, emanazione delle ACLI. Ma trattandosi di cattolici al grido d’allarme non può non essere affiancata la speranza. Non a caso bene espressa già dal titolo della ricerca “Tra astensionismo e voglia di impegno”.
Il dato infatti più rilevante è quello del crollo di fiducia anche tra i cattolici verso il mondo della politica e delle istituzioni, che raggiungono il minimo storico di consenso. Clamoroso il giudizio negativo sui partiti politici crollati di 18 punti percentuali in sei mesi dal 32% al 14% di gradimento. Giudizio negativo che ha coinvolto anche le istituzioni come Camera e Senato che hanno appena un terzo dei consensi fra i cattolici (e poco più di un quinto fra gli italiani) dimezzando gli apprezzamenti rispetto a sei mesi prima.  Ancora non resi noti i dati relativi a tutte le altre istituzioni, ma per il governo e personalmente Berlusconi, si confida che il gradimento è passato da 50 a 22 con tendenza a diminuire ancora. Perderebbe qualcosa persino il Presidente della Repubblica, nonostante il suo ruolo di punto di riferimento, mentre solo la Chiesa si mantiene stabile.
Conseguenza di questo tsunami di sfiducia, gli italiani si rifugiano nell’astensionismo. E i cattolici? Sorprendentemente l’astensione viene scelta tra i praticanti in misura ancora maggiore che nel resto della popolazione. Un cattolico su due in questo momento non saprebbe chi votare, e forse non voterebbe. E allora che senso hanno iniziative come quelle di Todi? Sono perfettamente coerenti: infatti la differenza qualitativa tra l’astensionismo cattolico e quello dei secolarizzati sta nel fatto che i primi aspettano che maturi qualcosa di nuovo. Non vogliono rifuggire dalla responsabilità, ma non trovano ancora i canali attraverso cui esprimerla, e si sentono pesantemente traditi da ciò che c’è stato finora. È per questo che mi sembra sbagliata e – se mi è permesso – pigra una delle interpretazioni che è stata data a commento del sondaggio: i cattolici restano comunque bipolaristi. No, questa affermazione è fuori luogo. Si può dire che verso il bipolarismo o un altro sistema non ci sia tutta questa passione, ma certo è una forzatura dire che siano bipolaristi. Come si fa a dirlo quando la fiducia verso questi partiti è meno del 15%? Come si fa a dirlo quando l’astensionismo è al 50%? Come si fa a dirlo quando il 40% dei fedeli risponde a esplicita domanda dicendo che non affiderebbe le sue speranze per il futuro né al centrodestra né al centrosinistra? Come si fa a dirlo quando meno della metà dei restanti cattolici che dicono di voler votare danno la loro preferenza a uno dei due maggiori partiti attuali (e che quindi vuol dire che poco più di un praticante su dieci appoggia il PD e poco più il PDL)?
Certo, siamo onesti fino in fondo. Lo sconcerto c’è, ed è tale che non trova ancora uno sbocco. Il centro, che in qualche maniera dovrebbe essere il rifugio naturale di queste realtà, cresce costantemente, ma molto meno di quanto ci si potrebbe aspettare. Qui però mi permetto di sollevare due riflessioni che potrebbero spigare questa crescita frenata. Primo: mi sembra abbastanza naturale che chi come i cattolici è abituato a fare scelte con serietà ed assunzione di responsabilità aspetti un attimo prima di regalare la propria fiducia. Chi per vent’anni, come tutti gli italiani, è stato abituato a una sorta di bipolarismo, e ancora oggi ne ritrova le eco sui mezzi di informazione, prima di fare il salto si prende una pausa di riflessione. Mi sembra del tutto naturale un passaggio attraverso il distacco, attraverso la tentazione astensionistica, prima di indossare una nuova casacca. Tanto più quando si è rimasti scottati e si vuole ben valutare su quale treno si sale. C’è poi una paura atavica che impedisce un cambio radicale a chi si scrolla di dosso la vecchia posizione politica: chi si sente di centrodestra pur deluso da Berlusconi teme di finire in bocca a una sinistra che avversa, e viceversa i cattolici di centrosinistra non vogliono in alcun modo correre il rischio di puntellare il nemico Berlusconi. Tutti discorsi che ci riportano al centro, e che quindi ci spingono a toccare il secondo punto della mia analisi. La convergenza al centro dei cattolici è a mio avviso coerente, inevitabile e probabilmente sarà improvvisamente superiore a quanto possano rilevare i sondaggi, ma non ci si può accontentare di un voto di riflusso, che sarebbe solo un pericoloso fuoco di paglia. I cattolici “astensionisti” sono il principale e vasto bacino di raccolta di consenso per il centro, ma bisogna cercarli attivamente, non aspettare di incassare da rendita di posizione. I cattolici (e non solo) sono stufi di grandi contenitori indifferenziati carichi di promesse di ogni tipo e poi indecisi a tutto. Chi vuole il consenso dei cattolici deve essere davvero impegnato nel difendere le loro istanze. Non gli interessi di parte (nel sondaggio si rivela che la maggior parte dei cattolici chiede alla politica di trovare una sintesi tra valori cristiani e laici), ma certamente una visione cristiana dell’uomo e della società in senso antropologico, sulla linea dei laici alla Benedetto Croce. Difesa senza esitazione dei valori non negoziabili, contributo fattivo della visione cristiana al bene comune, capacità di rinnovamento ed apertura alla società civile e ai movimenti cristiani: è questo quello che si aspettano dalla politica, e soprattutto dal centro, e quindi dall’UDC, gli elettori cattolici. Che sono oggi di nuovo una massa capace di fare la differenza.

martedì 25 ottobre 2011

Buttiglione: l'impegno politico dei cattolici dopo Todi

Volentieri riporto una riflessione di Rocco Buttiglione a seguito dell'incontro di Todi sul futuro dell'impegno dei cattolici in politica, pubblicato oggi su Liberal:

Proviamo a capire cosa è successo veramente a Todi il 17 ottobre e quali sono le prospettive di evoluzione del movimento che lì è nato. Lo facciamo da osservatori partecipanti. Partecipanti perché siamo dei cristiani che fanno parte del popolo cristiano che a Todi si è riunito. Siamo dentro la medesima comunione ecclesiale, abbiamo la stessa cultura, le stesse preoccupazioni e le stesse speranze. Osservatori perché facciamo politica e siamo in un certo senso la controparte davanti alla quale (speriamo non contro la quale) il movimento si costituisce.
Molti si sono preoccupati di difendersi da questo movimento nel quale, forse anche al di là delle sue intenzioni, si intuisce e si teme un potenziale destabilizzante del quadro politico attuale. Queste reazioni di difesa sono preoccupate più di stabilire cosa il movimento non è che non quello che è.
Si è detto che i movimenti e le associazioni di Todi non vogliono fondare un partito. È vero. È invece sbagliato dire che non fanno politica. La politica non appartiene tutta ai partiti. Esiste anche una politica dei cittadini, intesa come “prudente sollecitudine per il bene comune” (enciclica Laborem Exercens). È su questo terreno che si colloca il movimento di Todi. Esso coglie un disagio della società civile ed una mancanza di connessione e di dialogo fra società civile e società politica. Se non ci fosse questo disagio le associazioni ed i movimenti non avrebbero sentito il bisogno di ritrovarsi insieme. Niente nuovo partito (per il momento almeno) ma non si può nemmeno dire che va tutto bene e che per la politica tutto continua come prima. C’è un segnale chiaro di crisi e di insoddisfazione per il quadro politico esistente e per la situazione attuale della politica. C’è la percezione di una crisi che chiede, per essere superata, una politica diversa da quella che c’è ed una collaborazione fra tutte le forze politiche, privilegiando il bene comune su tutti gli interessi di parte.
Qualcuno ha detto che i movimenti di Todi non chiedono la fine del bipolarismo. È vero, ma questo non vuol dire che il bipolarismo lo sostengano. Semplicemente a me sembra che il problema dei movimenti non sia affatto il bipolarismo, né pro né contro. Chiedono di ristabilire un rapporto corretto fra politica e società. Chiedono che la società possa liberamente scegliere i propri rappresentanti nelle istituzioni. E chiedono un governo che si occupi efficacemente del bene comune del paese. Se questo il bipolarismo è in grado di garantirlo allora viva il bipolarismo. Se no, al diavolo il bipolarismo. Certo questo sistema con questo bipolarismo non risponde alle attese ed alle speranze dei movimenti.
Qualcosa di analogo si può dire per quello che riguarda Berlusconi e il berlusconismo. L’intenzione di Todi non è quella di attaccare Berlusconi ma certo neppure quella di difenderlo. I movimenti, piuttosto, si collocano dopo il berlusconismo. Pongono questioni e cercano risposte che vengono dopo la fine del berlusconismo. Non contro ma dopo. Un dopo, però, che è già cominciato e che è inutile cercare di frenare.
Molto bene un gruppo di dirigenti del PDL in una lettera ad Avvenire dice sostanzialmente: non chiedeteci di condannare Berlusconi (quelli di Todi non glielo chiedono), chiedeteci di andare oltre Berlusconi, di mostrare che non siamo la corte di Berlusconi ma una forza politica fondata su valori e su principi che rimangono anche dopo la fine del berlusconismo. Attendiamo fiduciosi che gli amici del PDL mostrino con i fatti di non essere la corte di Berlusconi.
Molti hanno agitato lo spettro della DC. Voci scandalizzate si sono chieste: “ma non vorranno rifare la DC?”. Io ho l’impressione che ai movimenti di Todi della vecchia DC non gliene importi nulla. Non la vogliono rifare ma non hanno neanche l’ossessione di non rifarla a nessun costo. Andranno per la loro strada e non si lasceranno fermare dalla preoccupazione che il risultato alla fine potrebbe forse per qualche aspetto somigliare alla Democrazia Cristiana.
Vediamo invece in positivo cosa è successo a Todi.
I movimenti si sono trovati per parlare insieme ed hanno verificato di parlare un linguaggio comune, e di avere attese e speranze comuni. Non era scontato. Una volta il cosiddetto mondo cattolico era diviso perché era attraversato da diverse opzioni ideologiche. La fede era debole e l’ideologia era forte. Davanti alle scelte difficili il rischio che la fedeltà all’ideologia o alla opzione politica prevalesse sulla fede era forte. Oggi è vero il contrario: i criteri e le visioni generate dal linguaggio della fede che unisce prevalgono sulle opzioni politiche che dividono. Si sono indebolite le ideologie, e la fede (forse) è diventata più forte. Parlando un linguaggio comune i movimenti hanno iniziato un percorso di ricerca comune. Non è poco. C’è una volontà di dialogo e di presenza comune nella società. C’è la percezione del fatto che questi movimenti e queste associazioni danno un grande contributo alla vita della società ma non contano rigorosamente nulla nel definire le linee politiche che la guidano. C’è poi la convinzione che la società stia andando a fondo e che i movimenti abbiano la forza ed il dovere di dare un contributo essenziale per salvarla. Ma come? Questo è il tema della ricerca.
La ricerca continuerà.
Proviamo ora ad immaginare alcune piste lungo le quali la ricerca può svilupparsi ed alcune tappe possibili dello sviluppo che ci sta davanti.
È necessario individuare alcuni obiettivi di una politica della cittadinanza e di promuovere su di esse una mobilitazione. Le associazioni ed i movimenti di Todi coinvolgono milioni di persone. Bisogna coinvolgerle su obiettivi semplici e chiari che queste persone possano facilmente sentire come proprie. Penso a temi come la famiglia, il lavoro, la scuola, il diritto alla partecipazione politica… può essere una grande manifestazione, possono essere diverse manifestazioni. L’importante è che esse siano preparate su di una adeguata piattaforma di valori e di proposte e che dopo ci sia la capacità di interloquire con le forze politiche sulla base delle proprie proposte.
Il movimento deve essere indipendente da tutte le forze politiche ma non deve essere equidistante. Deve essere capace di registrare convergenze e divergenze e di premiare gli interlocutori con i quali giunge a convergenze, e di opporsi agli interlocutori con i quali si registrino delle divergenze. Solo così il movimento potrà avere un forte e vero impatto politico.
È importante il tema del sistema elettorale. Il movimento di Todi ha una forza potenziale tale da consentirgli di affermarsi con qualunque sistema elettorale. Il sistema elettorale può però avere una funzione decisiva nel determinare il modo in cui la forza del movimento potrà esercitarsi sulla politica italiana. Con il sistema attuale il movimento può registrare solo convergenze e divergenze con i partiti nel loro insieme. Sono infatti i partiti ad essere votati, con liste bloccate. Il movimento può, certo, scegliere un partito ma certo preferirebbe non doverlo fare, preferirebbe mantenere una certa distanza da tutti i partiti. Questo è più facile se c’è un sistema che consente di scegliere (per esempio con le preferenze) la persona e non il partito. In questo caso il movimento potrebbe scegliere uomini che prendono impegno sui temi che gli stanno a cuore anche in diversi partiti o, al limite, in tutti i partiti.
Come reagirà la politica al porsi del “movimento dei movimenti cattolici”?
L’UDC deve porsi immediatamente come interlocutore del movimento. Molti di noi vengono dalla medesima esperienza di fede e tutti noi veniamo dalla stessa visione antropologica che è propria dei movimenti. Dobbiamo dire con chiarezza che consideriamo positivo il loro protagonismo, che voglismo formulare i nostri programmi nel dialogo con loro e che vogliamo rinnovare le classi dirigenti attingendo a uomini loro per le nostre liste elettorali. Non intendiamo strumentalizzarli e non pretendiamo un monopolio della interlocuzione politica. Saremo lieti se anche altri accetteranno il dialogo con i movimenti. Noi comunque ci siamo.
Un problema più complicato si pone per il popolo delle Libertà. Il movimento dei movimenti si colloca, non polemicamente, su di un terreno che viene dopo il berlusconismo. È capace il Popolo delle Libertà di porsi su questo terreno? Roberto Formigoni mostra di comprendere bene la natura del problema quando fa capire che Berlusconi farebbe bene a passare la mano ad un governo di grande coalizione ed il Popolo delle Libertà dovrebbe offrire all’UDC di fondare insieme un partito nuovo, il partito del partito Popolare Europeo in Italia. Ma è disponibile il PDL ad incamminarsi su questo percorso? O si ostinerà nel tentativo testardo di prolungare artificialmente, con costi altissimi per il paese, una stagione politica che è ormai definitivamente finita? Nessuno lo sa.
Il porsi del nuovo soggetto sociale e culturale cattolico interpella anche la sinistra. I primi commenti a Todi da parte della sinistra sono stati positivi. La critica a Berlusconi e la richiesta di una fase politica nuova dopo il berlusconismo ha fatto premio su tutto. La sinistra può prendere atto con soddisfazione anche di un altro elemento. I cattolici a Todi non hanno rivendicato semplicemente la difesa dei loro valori non negoziabili ma hanno rivendicato più in generale il diritto di dare un contributo decisivo per il bene comune, per la giustizia sociale e per tirare il paese fuori dalla crisi. La sinistra tuttavia non può eludere una questione decisiva. I cattolici di Todi affermano prima che una politica una antropologia, una visione sull’uomo. Da quella antropologia discende in modo indissolubile sia la difesa del povero che la difesa della vita. La difesa della vita non può essere autentica se non è unita alla difesa del povero, e viceversa. Chi è più povero di un bambino non nato? Il manifesto dei Quattro Intellettuali della Sinistra ha invitato bersani a rinunciare ad una presunzione di superiorità intellettuale per la quale i temi posti dalla cultura della vita non meritano neppure di essere presi in considerazione. Se la sinistra ne sarà capace anche con loro si potrà aprire un dialogo fecondo. Non è indispensabile che la sinistra adotti le nostre posizioni in bioetica. Sarebbe sufficiente che desse libertà di pensiero su questi temi al proprio interno.
Nessuno può dire quanto lontano arriverà questa iniziativa di Todi. In un panorama politico e culturale desertificato essa può essere un ponte verso un necessario Risorgimento. Ad essa noi guardiamo con fiducia e con speranza.
Rocco Buttiglione

lunedì 24 ottobre 2011

Citazioni sulla verità (selezione da Wikipedia)

  • A motivo della loro dignità, tutti gli esseri umani, in quanto sono persone, dotate cioè di ragione e di libera volontà e perciò investiti di personale responsabilità, sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. (Dignitatis Humanae)
  • A volte l'uomo inciampa nella verità, ma nella maggior parte dei casi, si rialza e continua per la sua strada. (Winston Churchill)
  • Ama la verità, mostrati qual sei, e senza infingimenti e senza paura e senza riguardi. E se la verità ti costa la persecuzione, e tu accettala; e se il tormento, e tu sopportalo. E se per la verità dovessi sacrificare te stesso e tua vita, e tu sii forte nel sacrificio. (Giuseppe Moscati)
  • Difatti, da qualunque parte sia la verità, essa non può mancare di uscire illuminata da tale prova. Essa ha un fascino segreto e un potere invincibile sugli animi; presto o tardi giunge a sottometterli. Noi siamo fatti per conoscerla, e quando invece abbracciamo l'errore, siamo sedotti e legati dalla sua somiglianza con la verità, perché essa non è sempre egualmente sensibile e palpabile; qualche volta l'errore prevale per ignoranza, si accredita con l'opinione, si afferma e si consolida con l'uso; l'errore assume allora tutte le apparenze della verità, e acquista sugli animi un dominio che sembra indistruttibile.
    Quando la verità così offuscata e dimenticata incomincia a riapparire, essa si ritrova con tutti gli svantaggi della novità, e vede alzarsi contro di sé quelle proteste che l'errore suscita, nel proprio interesse, ogni volta che viene enunciata. Soltanto a forza di esami e di fatiche, al prezzo di una discussione lunga e laboriosa essa riconquista la sua autorità perduta, e finalmente si manifesta con quella certezza alla quale l'evidenza ha posto il suo suggello. Il suo possesso è allora assicurato, essa non fugge più dopo essere stata lungamente disputata e acquistata con una ricerca ostinata, che una contraddizione sostenuta ha reso più profonda e più seria. (Guillaume Le Trosne)
  • Faranno fatica a crederci... Coloro che hanno preso l'autorità per la verità, piuttosto che la verità per autorità. (Gerald Massey)
  • La demenza degli uomini fa talvolta scandalosa la verità; laonde ella ebbe a pronunziare di se medesima : non venni a recare la pace in mezzo di voi, sibbene la spada. (Terenzio Mamiani)
  • La verità eterna non ci chiede altro che la sincerità, e le basta la libertà per estendersi sul mondo. (Sophie-Jeanne Sojmolov Swjetschin)
  • La verità è ciò che è, non ciò che dovrebbe essere. (Lenny Bruce)
  • La verità è sempre rivoluzionaria. (Antonio Gramsci)
  • La verità è una luce che rischiara e una forza che santifica; conduce gli uomini all'ammirazione di ciò che conoscono e all'amore di ciò che ammirano. (Sophie-Jeanne Sojmolov Swjetschin)
  • La verità non consiste di belle parole; | le belle parole non sono verità. (Laozi)
  • La verità non è linguaggio di cortigiano: non suona che sul labbro di chi né spera, né teme dalla potenza. (Giuseppe Mazzini)
  • La verità non ha mai atterrito gli amici della virtù e non vi sono che i vili, che consigliano di tacerla, e le sporche coscienze, a cui torna conto che la sua luce resti sepolta nel cuore degli uomini, come una lucerna dentro una tomba. (Vincenzo Monti)
  • Le verità sono come le medicine: hanno il sapore cattivo e nessuno le vuole prendere, però fanno bene. (Ferdinando I, re di Napoli)
  • Nel paese della bugia, la verità è una malattia. (Gianni Rodari)
  • Nessun paese può sopprimere la verità e vivere bene. (Ezra Pound)
  • Niente educa il carattere quanto l'abitudine costante di dire il vero. (Ruggiero Bonghi)
  • Non ci dobbiamo vergognare di riconoscere la verità e di assimilarla da qualsiasi fonte ci venga, anche se ci è stata insegnata da altre generazioni e da popoli stranieri; per colui che cerca la verità, non c'è nulla che abbia un valore più grande della verità stessa; essa non lo umilia, anzi, lo onora e lo nobilita. (al-Kindi)
  • Oh verità! sentimento divino, idolo dei cuori onorati e tormento eterno dei perfidi, io potrò dunque far sì, che il pubblico ti contempli a viso scoperto e ti tocchi? L'impostura avea tentato di seppellirti, e nascondere, ai tanti occhi che ti cercano, le tue pure attrattive. Ma la mia mano strapperà con coraggio il velo che ti hanno posto sul volto. La tua luce brillerà come il sole, confonderà i vili che ti hanno tradito, e i buoni esulteranno tutti della tua giusta vendetta. (Vincenzo Monti)
  • Se si appanna la luce della verità si rischia di perdere l'idea su cui sono basate le istituzioni della libertà stessa. (Michael Novak)
  • Una volta che si è tolta la verità all'uomo, è pura illusione pretendere di renderlo libero. Verità e libertà, infatti, o si coniugano insieme o insieme miseramente periscono. (Papa Giovanni Paolo II)
  • Verità e virtù, ecco i due poli dell'asse morale: la verità che è la virtù dello spirito e la virtù che è la verità delle cose del cuore. (Sophie-Jeanne Sojmolov Swjetschin)
  • Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. (Gesù)
  • Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce. (Gesù)
  • Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi. (Gesù)
  • Chiunque voglia sinceramente la verità è sempre spaventosamente forte (Fedor Dostoevskij).
  • L'unico senso della vita è di servire l'umanità, concorrendo allo stabilimento del regno di Dio, cosa che non può farsi se ciascuno degli uomini non riconosce e non professa la verità. (Lev Tolstoj, Il regno di Dio è in voi)
  • Come si può cercare la verità o accarezzare l'Amore senza essere intrepidi? (Mahatma Gandhi)
  • La Verità non danneggia mai una causa giusta (Mahatma Gandhi).
Proverbi:
  • Al vero corrisponde sempre ogni cosa.
  • Chi dice il vero non s'affatica.
  • Chi teme di dire il vero, non è degno di fare.
  • È meglio dire il vero con franchezza, che il falso con grazia.
  • La verità fa poche parole, e la menzogna molti complimenti.
  • La verità ha una gran forza.
  • La verità non deve sacrificare nemmeno gli amici.
  • La verità non è mai troppa.
  • La verità non ha bisogno di ragione.
  • Non v'è fune così forte che possa strozzare la verità.
  • Parla poco e di' il vero.
  • Quel che è vero è sempre vero, da qualunque bocca esca.

giovedì 20 ottobre 2011

Cattolici, impegno politico, Todi. Un successo? un fallimento? un bluff? l'inizio di un cammino?

Ieri ho partecipato a una ricca, appassionata e interessante chiacchierata sull'evento di Todi (la riunione di gran parte dei movimenti e delle associazioni cattoliche) con diversi amici, cattolici impegnati. I pareri erano molto discordi, con tante ragioni da tutte le parti. In molti hanno messo in evidenza i limiti dell'incontro di Todi. Io ho una visione più ottimistica, anche perché più pragmatica. Quello che mi ha colpito però è che noto ancora - magari mi sbaglio - che quello che prevale è un sentimento di subordinazione della cultura cattolica, soprattutto in politica. Queta idea è quella contro cui io ho combattuto tutta la vita, e non credo che smetterò di farlo. Si ragiona dei cattolici sempr ein funzione degli altri, delle alleanze, del subordinarsi a qualche realtà esterna cui accodarsi. Per me è il contrario. Noi dobbiamo ritrovar enoi stessi e ripartire dalla nostra identità, dai nostri progetti, dalla nostra visione della vita, dalla nostra visione antropologica. Abbiamo tanto da dire. Partendo da questo possiamo serenamente dialogare con tutte le altre culture, le altre visioni (ma oggi ce ne sono davvero altre?), rispettandole, facendoci rispettare, trovando mediazioni o scontrandoci duramente con gli strumenti della democrazia. Ma tutto deve partire da noi.
Per questo giudico positivamente l'incontro di Todi. E' un inizio. E' da tempo immemorabile che le associazioni cattoliche non si confrontavano tutte insieme sui temi socio-politici. Negli ultimi anni abbiamo vissuto una stagione feconda per certe realtà del mondo cattolico, ma di totale delega dal punto di vista politico, con il rischio dell'irrilevanza, della mancanza di iniziativa, dell'impotenza. Oggi c'è un vuoto nel quale i cattolici sono chiamati ad assumersi delle responsabilità. In che modo è il tema della discussione. A mio avviso comunque questo è un punto centrale. Non si sta costruendo una lobby di cattolici per tutelare degli interessi specifici. Questo è lecito e persino doveroso, ma non è il punto oggi. Forse questo è il retropensiero che c'è dietro molte obiezioni: occupiamoci di difendere alcuni nostri capisaldi, e per il resto lasciamo stare. No, non è questo il punto. Il punto è che oggi la società, il Paese, l'Europa vanno allo sfascio, e i cattolici hanno il dovere di dire la loro, hanno la responsabilità di dare il loro contributo al bene del Paese. Anche perché, e questo lo dico forte, la visione cattolica (sociale e antropologica) è un'ottima risposta, è credo la migliore risposta. Laicamente migliore. E i fatti, lo sviluppo delle società lo dimostrano. Il motivo per cui continuo a rivendicare la battaglia contro il complesso di inferiorità che anima troppi cattolici, e la subordinazione alle culture e alle visioni sociopolitiche altrui. Semmai cristianamente dobbiamo sforzarci di combattere un legittimo complesso di superiorità.
Torniamo quindi al punto delle riflessioni su Todi. Alle obiezioni.
Prima contestazione: si è parlato poco di fede, del centro dell'annuncio cristiano, tanto più che ci troviamo in una società secolarizzata e proprio in quei giorni ne hanno parlato più volte il Papa e il cardinal Bagnasco. Secondo me questo è un tema centrale del nostro tempo, la nuova evangelizzazione. Anche l'impegno politico dei cattolici è fragile e sterile se non è alimentatio dalla linfa di un forte credo non solo personale, ma di un numero consistente dei credenti. Come si fa a rappresentarte la visione e le istanze dei credenti se i credenti non ci sono o sono fragili, confusi, dispersi, discordanti? Giusto quindi il tema, ma fuori luogo, a mio avviso, per Todi. E' un po' una classica operazione di benaltrismo. Le due cose non sono certo in contrasto. la nuova evangelizzazione è necessaria. ma questo non esclude che le associazioni che sono già evangelizzate (bene o male) si ritrovino per discutere su cosa fare nel sociale e anche nella politica. "Dalle vostre azioni vi riconosceranno". Anche una buona azione dei laici cristiani da protagonisti sulla scena socio-politica-culturale può essere nuova evangelizzazione, anzi lo deve essere.
Collegata c'è l'obiezione sul fatto che non si sia parlato di valori non negoziabili. Non lo so, ma credo non ce ne fosse bisogno. Alcuni malpensando ritengono che questo tema sia stato accantonato per presentare una piattaforma pronta a un accordo con la sinistra. Io credo che non sia affatto così: credo che per quanto tra i cattolici ci sia a volte una flebile sensibilità ai valori non negoziabili (appunto da qui la necessità di una nuova evangelizzazione), questo non avvenga tra i vertici delle associazioni cattoliche, che da quei valori devono partire, e su quei temi devono impostare i loro programmi e la loro azione socio-politica. Se qualche leader fosse più disposto a baratti, sarebbe un suo difettopersonale che lo pone fuori dall'alveo di un'azione socio-politica di ispirazione cristiana. Accade, siamo fallibili, peccatori, tentati, ma questo non discredita tutto il progetto, tutto l'impegno, anzi, è proprio l'assenza di un impegno unitario e di una rotta ben tracciata che lascia spazio alle derive personali e personalistiche.
Da qui al punto successivo: era solo una conmbriccola preoccupata del potere futuro. No, mi ribello a questa visione. Può anche essere che qualcuno avesse questo retropensiero, volesse salire su un treno in corsa. siamo umani. Ma vale ancor più il discorso di cui sopra. Il progetto vale, e vale anche perché nel suo complesso ha la forza di evitare queste derive. Se invece manca un'impalcatura complessiva, la fragilità umana è più esposta alle tentazioni. Qualcuno ha detto: erano tutti là solo per essere presenti alla foto di gruppo nel caso in futuro restasse nella storia. Beh, mi sembra una cosa doppiamente positiva. Vuol dire che il progetto vale, ha prospettive, richiama interesse, smuove aspettative e coscienze. Si sa che le cose di uomini non sono fatte solo di puri. L'importante è che la direzione sia giusta. E poi, da un punto di vista minimale (perché forse molte critiche a Todi partono anche da un eccesso di aspettative salvifiche che forse non avevano ragion d'essere), proprio quella foto (per la verità non credo sia stata fatta una foto di questo tipo) è il valore positivo di Todi: quando mai tutte quelle associazioni cattoliche si sono incontrate per dialogare e confrontarsi su cosa fare, su come dare insieme un contributo cattolico alla società e alla politica italiana? Non è un punto di arrivo, è un punto di partenza. Per un cammino faticoso e pieno di imprevisti. Ma che credo valga la pena di fare. Abbiamo il dovere di fare.
Per andare dove? Questa è un'altra critica ricorrente. C'è chi si lamenta che troppo poco è stato fatto. Neanche un coordinamento, non un elencazione di proposte concrete, di priorità da affrontare. Tantomeno un partito (qualcuno lo chiede). Sì, forse è stato fatto troppo poco (anche se c'è pure chi si lamneta che è stato fatto troppo, detto troppo, che forse era meglio non fare proprio niente). Poco è stato fatto, ma qualcosa sì. Forse più di quanto si creda. Forse invece tutto naufragherà perché non gli si dà seguito. Ma secondo me il punto è che è stato fatto un passo, il primo passo. E' un cammino. Altri passi devono seguire. Todi è un inizio, non un arrivo. Se sarà stato un inizio il giudizio dovrà essere positivo. se tutto si limita a questo, sarà stata un'occasione sprecata.
Altra obiezione, tutti cercano di mettere il cappello sull'iniziativa. Vero. prima di tutto è un segno del suo successo, della sua rilevanza. Secondo, non si può impedire il tentativo di strumentalizzare, si può respingere le strumentalizzazioni grazie alla propria forza, alla propria autonomia. Anche le parole del Papa vengono costantemente strumentalizzate da una parte e poi da quella opposta. Ma le pressioni esterne non devono spingerci alla paralisi. Semmai devono spingerci a uno sforzo in più, a una maggior chiarezza, maggior autonomia, maggiore forza. A posizioni ferme, progetti precisi, iniziative da protagonisti. Che costringano gli altri a inseguire. Certo dobbiamo anche avere una migliore formazione, essere meno ingenui. Non ci trovo nulla di male a dialogare con realtà diverse da noi, anzi, è doveroso, bisogna contribuire insieme al bene del paese. Ma magari possiamo evitare di dare una delelga eccessiva, una patente di guida a realtà ad esempio dell'editoria e della finanza che non sono esattamente frutto del nostro seno. D'altro canto non si può incolpare di questo neanche Todi, è quello che comunque è successo in questi anni. Ma ben venga il dialogo per il bene comune. 
Ci sono ancora ltre cose da dire, spunti su cui riflettere (le donne, il partito, e ancora la coscienza della propria forza rispetto alla subordinazione), ma sto andando decisamente troppo lungo, ci tornerò.
Intanto aspetto i vostri commenti e nuovi spunti. Mi sembra che il dibattito sia accalorato, ne vale la pena.

mercoledì 19 ottobre 2011

Indignato anch'io. Ma con chi? E poi dopo?

Questa crisi economica mi indigna. La scarsa o nulla reattività della classe dirigente, politica e non, mi indigna. il fatto che nessuno paghi mi indigna. Le violenze dei cortei mi indignano. Chui le strumentalizza mi indigna. Chi le giustifica mi indigna. Chi fa demagogia mi indigna. Chi eccita gli animi mi indigna. Chi si fa solo i fatti suoi mi indigna. Chi è in buona fede ma si fa dominare dalle passioni peggiori e si fa manipolare dai cattivi maestri, un po' mi indigna, un po' mi fa pena. Ho aspettato qualche giorno a riversare per scritto le complesse emozioni di questi giorni. per la verità sono alcuni anni che le interiora mi ribollono, che dalla mia posizione di osservatore privilegiato vedo arrivare venti di tempesta e al contempo vedo troppa disinvolta superficialità intorno a noi. Non solo tra i politici, ma soprattutto nella società. E' per questo che ora mi indigno ancor di più vedendo quel che avviene. L'egoismo con cui ci si arrocca a difendere i propri privilegi, senza rendersi conto del quadro generale. E' come se la barca stesse affondando in mezzo alla tempesta e invece di remare nella stessa direzione ciascuno usa il suo remo per picchiare gli altri.
Per questo dico: anch'io sono indignato, più di molti altri, perché più consapevole. Ma non sono un indignados. Sento anch'io montare dentro di me la rabbia come uno tsunami. Ma cerco di fare argine, di incanalare questa forza travolgente per trasformarla in energia. Per questo capisco i manifestanti, ma non ne condivido molte cose. Mi sembrano troppo spesso cani che ululano alla luna. C'è motivo di essere arrabbiati. Ma c'è soprattutto motivo di rimboccarsi le maniche, di darsi da fare per tirarci fuori da una situazione davvero difficile. Richiede molta più fatica, uno sforzo molto più grande di una sfilata, ma è necessario, e urgente. Bisogna fare. Non bisogna rassegnarsi alla crisi, al predominio di una politica corrotta e insensibile. Ma non bisogna neanche cedere ai sentimenti più inutili, dare retta alla pancia, alimentare rabbia, rancore. Darla vinta alla pars destruens. E' il momento più che mai di dare forza alla pars construens, l'unica per la quale valga la pena di impegnarsi. Ma certo richiede che ci si dia da fare, che si sudi, che si vada incontro anche a delusioni, amarezze, che ci si metta in gioco, che ci si confronti con altri trovando insieme una via di uscita. Ma è necessario epr essere parte della soluzione. L'unica alternativa è la scorciatoia che porta invece ad essere parte del problema. E' senz'altro più facile gridare la rabbia, individuare colpevoli (ce ne sono di colevoli, ce ne sono, altroché, ma non funziona il rito di scaricare tutte le colpe su qualcuno in modo che magicamente i problemi si risolvano), ripetere stanchi slogan (e poi, come non si fa a non capire che la guida di questi movimenti, quelli che li strumentalizzano, sono sempre gli stessi, cambiano solo nome, autonomi, anarchici, centri sociali, no global, no tav, viola, indignados e camaleonti vari). E' più facile farsi una passeggiata di protesta ogni tanto, sentirsi massa, è una questione di cultura moderna: clicco un 'mi piace' (che non mi chiede nulla, non mi costa nulla) e penso di aver dato un grande contributo alle cause mondiali, e invece non ho fatto proprio niente. Forse ho solo ingannato la mia coscienza. O forse magari è un piccolo timido segno di risveglio, un primo passo, che è sempre meglio di niente. Ma non è questa la soluzione.
La soluzione è impegnarsi, mettersi in gioco, fare la propria parte, essere una goccia nell'oceano, quella goccia infinitesimale che, diceva madre Teresa di Calcutta, mancherebbe se io mi astenessi. Non è l'ora di astenersi. E' l'ora di recuperare l'etica della responsabilità, dell'impegno. A partire da se stessi, dal proprio cuore. Dal mettersi in discussione. Questo blog si ispira alla "conversione": questo è quel che serve. Solo la conversione del proprio cuore può avviare un cambiamento rivoluzionario. Può trasformare noi stessi, chi ci sta vicino, l'ambiente che ci circonda, potenzialmente il mondo. E dalla conversione non può derivare una chiusura intimistica: la conversione porta a prendere atto della realtà (il blog cerca anche la verità, come vedete non sono cose tanto lontane dalla realtà quotidiana, dalla vita di ciascuno di noi) e porta a reagire alla realtà che incontriamo, per cercare di farne parte con l'impegno di migliorarla. Capisco la rabbia, mi freme in ogni filamento del mio corpo, ma sfogarla non serve. Serve trasformarla in energia per darsi da fare, per cambiare il mio cuore e poi il mondo. Anche la crisi economica si può combattere così: sono slogan vuoti "noi la crisi non la paghiamo", azzeriamo il debito", "dateci lavoro" e tutto il resto. Il contenuto è capire quale sia davvero la realtà, per fare la propria parte per trasformarla.

venerdì 14 ottobre 2011

Un governo di minoranza che tratta volta per volta l'appoggio esterno

Il governo ha la fiducia ma non ha la maggioranza. Il governo ha la fiducia e le elezioni sono più vicine. Sembrano paradossi, ma sono la palese verità. Sembra presunzione fare affermazioni di questo genere dopo il voto alla Camera, ma invece è la semplice evidenza. Non stiamo parlando di complesse alchimie politiche. E non stiamo neanche facendo riferimento alla presunta (ma anche evidente) mancanza di una maggioranza nel Paese: è un fatto che sia gli elettori (lo dicono gli ultimi risultati dei voti sia i sondaggi tanto cari a Berlusconi) sia le forze sociali (Confindustria, sindacati, mondo cattolico, realtà produttive, ecc.) hanno manifestato la loro sfiducia in questo governo. Ma non è a questo che voglio richiamarmi. Il problema è strettamente parlamentare. Nonostante i 316 voti raggiunti alla Camera (il minimo indispensabile), quello di Berlusconi è un governo di minoranza. La vera “maggioranza” cioè consiste di un gruppo ristretto di fedelissimi, mentre intorno gravita una massa di realtà politiche che prendono continuamente le distanze dall’azione di governo e poco partecipano all’attività parlamentare o addirittura votano contro provvedimenti del governo. È una cosa che sta agli atti, non lo dico io. Un folto numero di quelli che ieri hanno sostenuto la fiducia hanno già pubblicamente annunciato che è l’ultima volta, che dalla prossima settimana si vedrà provvedimento per provvedimento. La Lega non fa che prendere le distanze da Berlusconi, pur sostenendo ogni iniziativa governativa. Persino un ministro, la Prestigiacomo, poco prima di votare la fiducia ha già detto che allo stato delle cose voterà contro la legge di stabilità, non certo un provvedimento di secondo piano. Di fatto la verità è che siamo di fronte non solo a un governo debole, non solo a una maggioranza fragile e sempre a rischio, non solo ai malpancisti, ma a una vera mutazione genetica della situazione politica. Quello attuale è un governo di minoranza, come dicevamo, che di volta in volta deve trattare il consenso di un’infinità crescente di gruppi di pressione. Gruppi di parlamentari o singoli il cui voto è costantemente appeso a un filo, al soddisfacimento di questa o quella richiesta. Un governo di minoranza in balia di una serie di appoggi esterni da contrattare minuto per minuto. Non si può andare avanti così.
Ma questo dà adito a un’ulteriore riflessione più approfondita: questo è il frutto del lento declino dell’era berlusconiana, ma è anche il frutto della fine del bipolarismo. Lo stesso accadeva ai governi Prodi. Il maggioritario doveva risolvere ogni problema, mettere di qua o di là, azzerare i piccoli partiti, dare la scelta agli elettori. Non è così: il governo che c’è adesso non è certo quello delle urne (non mi risulta che gli elettori avessero votato i Responsabili, ad esempio). Ma soprattutto i partiti o i microgruppi di pressione, addirittura i singoli deputati, proliferano sempre più con un accentuato potere di ricatto. Il maggioritario ha favorito questa situazione. Si dirà: anche nel proporzionale i piccoli partiti avevano potere di condizionamento: certo, ma se si è onesti si capisce che non arrivava a questo livello (e comunque non lo nascondeva affermando che il maggioritario avrebbe risolto la questione). Ma col proporzionale quei gruppi di pressione dovevano agire alla luce del sole e rispondere ai loro elettori, cosa che ora non accade. E soprattutto il loro potere di veto era nettamente inferiore: ogni piccolo gruppo non organico poteva provare ad avanzare le sue richieste, ma finiva in concorrenza con altri che potevano sostituirlo convergendo su punti programmatici. Si poteva dire no perché c’erano alternative: andava costruito anche a fatica un consenso, ma sulle azioni di governo. Con la truffa del bipolarismo invece il consenso si deve costruire per vincere le elezioni, non per governare. Occorre avere un voto in più dell’avversario per ottenere tutto, e quindi tutto è lecito per mettere insieme chiunque. Il singolo voto in più che fa la differenza ha una forza di ricatto ineguagliabile da alcuna forza proporzionale. Inevitabile che i partitini o analoghe realtà si moltiplichino e rendano ingovernabile il Paese. E questo è il risultato, specie in un’era di tramonto: un governo di minoranza che deve trattare volta per volta gli appoggi esterni.

Sulle riflessioni interessanti di starless

Da Starless tre spunti interessanti e veri. Ma qualche ulteriore riflessione la vorrei aggiunge. Primo: è proprio perché il pur bravo costruttore e venditore di gadget tecnologici lo puoi vedere che lo premi comprando i suoi prodotti, magari con una specie di nobel, ma da qui a trasformarlo in un'icona trascendente ce ne dovrebbe passare. Quello che funziona e piace lo compro, decide il mercato, ma idealizzarlo come un profeta di una nuova mistica, bah... eppure in certi casi è quello che avviene. Secondo: proprio per quanto detto concordo che sarebbe ragionevole preferire una ditta all'altra per meri motivi di funzionalità (anche se la mia personale esperienza con mac e pc va nella direzione opposta). è difficile però negare che in certo mondo di applisti ci sia un dogmatismo fideistico, e che la preferenza per certe multinazionali rispetto alle rivali derivi a volte da ideologie di vario genere, anche politiche, che però danno risultati irrazionali. Piccola prova ne è il caso della sinistra radicale a Roma, dove SEL ha inneggiato a Jobs, mentre Vendola ha smentito i suoi dicendo che Apple e Jobs non rappresentano la loro cultura (e qui scatta la stranezza su cui mi interrogo: com'è che diciamo la stessa cosa con Vendola?). Terzo, la fede calcistica. Giustissima osservazione. Appunto viene chiamata fede, e il discorso va esteso a tutte le forme molto terrene che però danno un'illusione di identità. è questo il punto, una società liquida, frammentata, pervasa dal pensiero debole, nella quale persone fragili cercano una identità cui attaccarsi. Mentre non si rendono conto che cercano di saziare un loro bisogno attingendo a qualcosa che non solo non li può soddisfare, ma li porta fuori strada. Ma per cercare il pelo nell'uovo, a livello personale resto sempre più stupito del fideismo in un prodotto commerciale che dell'attaccamento seppur estremo per esempio a una squadra. Il tifo sportivo c'è da sempre, e si basa comunque con una identificazione, con una emotività senza le quali non ha senso. Eccessi e degenerazioni sono frutti sbagliati di quanto dicevamo, e anche nel tifo ci vorrebbe un saggio distacco, senza però un coinvolgimento non c'è divertimento. E da una squadra non chiedo le prestazioni che chiedo a un oggetto che compro e che voglio essere libero di selezionare di volta in volta senza apriori. Dalla squadra chiedo invece emozioni. e chi è fragile tanto più il pensiero è debole, tanto più cerca emozioni forti. Sbagliando.

venerdì 7 ottobre 2011

In morte di Steve Jobs, riflessioni spot

Non mi sono mai appassionato alla Apple, mi sono spesso interrogato e ancor di più oggi, con i molti spunti che vengono dalla scomparsa di Steve Jobs. Alcuni spunti vengono da amici che ringrazio. Cerco di cavarmela con dei flash per punti, lieto se qualcuno vorrà integrare, commentare, aggiungere, criticare.

  • Ho scoperto una cosa importante che non sapevo: Steve Jobs non era un Jobs. E' stato adottato. I genitori non lo volevano, ma la mamma invece di abortire lo ha dato in adozione. Oggi tutto il mondo lo piange, e tutto il mondo è un po' cambiato grazie a lui. Ogni singola vita può cambiare il mondo. Come si fa ad eliminarla senza un motivo? Quanti fili sono stati spezzati fino ad ora, che avrebbero potuto invece annodare storie importanti? Quanto bene non è stato fatto perché si è chiuso gli occhi di fronte alla vita? Dovrebbe far riflettere, non tanto le povere donne che abortiscono spesso in condizioni per loro insostenibili, quanto quei maestri di pensiero che credono che gettare una vita sia un atto di libertà. Quei maestri di pensiero propagatori di morte portano la responsabilità non solo delle vite stroncate, non solo delle donne distrutte da quella che avevano fatto credere loro fosse una valida scelta, ma portano anche la responsabilità di tutto il bene che non è stato fatto. Anche perché, come insegna il caso di Steve Jobs, chi proprio non può mantenere un figlio ha molte alternative all'aborto, a partire, anche in Italia, dalla possibilità di lasciare il bimbo in adozione. 
  • Uno degli aforismi che circola di più è molto suggestivo e ben pensato: il mondo è stato cambiato da tre mele, quella di Eva, quella di Newton e quella di Jobs. Complimenti a chi l'ha coniato. Ma forse meriterebbe una più profonda riflessione. Al di là della semplificazione che riduce tutto alle mele (lì è la sua forza ma anche il suo limite), l'aforisma nasconde un'insidia molto grave. Probabilmente è solo un triste frutto (mela o non mela fate voi) della superficialità, e un simbolo di come siamo ormai più ammaliati dalla apparenza delle cose purché ben markettizzate piuttosto che dalla sostanza. Ora si può discutere ma anche accettare che la mela della Apple abbia dato un contributo a cambiare il mondo. Lo stesso vale ancor più per quella di Newton (che pare sia realmente esistita anche se l'episodio è naturalmente la sintesi di una realtà ben più vasta), pur ben sapendo che le teorie di Newton si inseriscono in un contesto culturale più ampio e ricco. Ma che c'entra la mela di Adamo ed Eva (che per inciso non era affatto una mela...)? Forse quel pomo è davvero quello che più ha trasformato e trasforma il mondo. Ma ci rendiamo conto del senso di quel che si dice? E' come se si desse a quella mela un valore positivo o almeno neutro. Non c'è dubbio che c'è chi lo faccia: esaltare il pomo della ribellione a Dio, di un presunta indipendenza dell'uomo e via così. Ma sono cattivi maestri. Quel pomo è la fonte del peccato originale, dell'entrata del male nel mondo, e con esso della morte in tutte le sue forme negative. Dimenticarlo, mettere tutto sullo stesso piano la dice lunga sullo smarrimento culturale che pervade la nostra società, e di conseguenza sullo smarrimento etico. Io temo (forse esagero) che concetti come questo, vissuti da molti con simpatia e superficialità e senza nessun desiderio di affermare filosofie e rivoluzioni morali, finiscano però con l'intorbidire e intontire le coscienze, siano un messaggio subliminale che viene bevuto inconsciamente da chi non ha più la struttura critica per dire alt, stop, ma che stiamo dicendo, che significa questo? suona bene, ma poi? Non è il male eclatante quello che più spaventa le coscienze, bensì è quello strisciante che si insinua, come il serpente della mela (quella di Adamo ed Eva, non del povero Steve Jobs).
  • Ultimo flash, lo giuro: mi sono sempre chiesto da cosa nascesse questo culto che c'è tra gli adepti della Apple. E sì perché non si può negare ce in molti casi ci troviamo di fronte a fenomeni parareligiosi piuttosto che a scelte di un prodotto di un mercato. Per la Apple (come in altri casi meno eclatanti) c'è in giro un certo fideismo che va molto oltre la preferenza per la funzionalità del prodotto tecnico. Dal punto di vista del marketing un altro grande successo di Steve Jobs, non c'è dubbio. Ma c'è dell'altro su cui vale la pena forse di interrogarsi. Senz'altro c'entra una contrapposizione con la Microsoft. Non so perché, in una certa fascia di popolazione scatta l'equazione Microsoft cattiva, Apple buona, come Coca Cola cattiva, Pepsi buona e via così. Mi risulta inspiegabile. Credo che in parte derivi dal successo di strategie di marketing dei secondi che così contrastano i primi. Ma quello che non riesco a capire è come sia possibile che la gente ci creda. Sono sempre multinazionali, che lottano duramente sul mercato, lanciano prodotti per accrescere il fatturato e tutto il resto. E' nel loro diritto, fanno bene e lo fanno bene. Tutte loro (tutte) avranno commesso qualcosa di non eticamente irreprensibile, tutte loro hanno fatto qualcosa di buono persino oltre la loro pura mission commerciale (per fortuna ultimamente anche la beneficenza è un buon affare). Tutte queste differenze non le vedo. Vedo semmai l'esigenza di certi ribelli per professione di trovarsi un nemico e accogliere qualsiasi avversario del proprio nemico come un santo a prescindere da tutto. Mi sembra tipico di una certa cultura no global e sinistrorsa che spesso e volentieri mi appare nella massa soprattutto ingenua e irrazionale. Ma mi chiedo se ci sia anche dell'altro. Se persino attraverso queste infatuazioni collettive non emerga il bisogno di dare fiducia, di credere, di sentirsi parte di un progetto per una missione, per un mondo migliore. Una atavica esigenza di schierarsi per il bene. E se così fosse allora mi chiedo perché questa umana esigenza si indirizzi in questo modo. Mi chiedo perché non si riesca ad andare oltre alla fidelizzazione ad un prodotto commerciale. Mi piego perché questa sete non possa spingerci più in alto, non possa scartare le illusioni delle fontanelle per andare alla sorgente. Mi chiedo perché questo mondo secolarizzato faccia meno fatica a credere nel creatore di un telefono che nel creatore dell'essere umano. Forse la connessione giusta è quella che punta più in alto.