Un fantasma si aggira per il mondo. Anzi non si aggira per niente, anche se molti ci credono. È il bipolarismo, con eventuali pulsioni bipartitiche e collegati maggioritari. Sembra che in tutto il mondo questa sia la situazione politica e dei sistemi elettorali. E l’Italia si deve adeguare. Il fatto clamoroso è che è completamente falso. Non si tratta nemmeno di un mito, o di un misterioso animale leggendario. No, è proprio una balla. Ripetuta tante volte che gli italiani ci hanno creduto a lungo, e qualcuno nell’attuale panorama politico continua a ripeterlo nel tentativo di perpetuarsi. Ma sveliamo che il re è nudo. Il bipolarismo non esiste. Da nessuna parte. E anche i pochi modelli maggioritari che tentano di forzare verso un bipolarismo hanno clamorosamente fallito nel loro intento. Certo, se per bipolarismo si intende la dinamica tra maggioranza e opposizione, questa esiste ovunque, seppur articolata. E nessuno è contrario a questo. Se poi per bipolarismo si intende che esistono due maggiori aree politico-culturali di riferimento, a prescindere dal numero di partiti e anche dalle alleanze, questo si verifica spesso, e ha un senso. Ma se il bipolarismo è quello mitico sventolato da politici e politologi italiani, beh, di quello proprio non c’è traccia. Nessuna. O meglio, in Europa un caso bipolare c’è, ma non so se possa fare da scuola: è Malta, dove esistono due soli partiti che si alternano al governo, il Partito Nazionalista e il Partito Laburista (e comunque nel 2008 il 2% dei maltesi ha scelto altre forze politiche minori). Con una piccola precisazione: al di là delle minime proporzioni del corpo elettorale maltese, e del fatto che si fa fatica a vedere la bella isola come modello istituzionale mondiale, quel che più conta è che il sistema elettorale maltese è proporzionale. Sì, proporzionale, con un minimo premio di maggioranza solo se serve, nessun impedimento alla nascita di nuove forze politiche. È solo che lì, per ora, non servono. Ma tolta Malta, lo scontro finale e allo stesso tempo permanente tra due fazioni politiche non va di scena in nessun Paese europeo, e in realtà neanche altrove, nemmeno negli Stati Uniti se si prende in considerazione la forma dogmatica e di comodo di certi apostoli italiani. D’altro canto per capirlo basterebbe guardare al Parlamento Europeo, dove i deputati dei vari Paesi sono divisi tra molti gruppi, oggi sette, nei quali si collocano anche forze politiche che a volte fanno più fatica ad essere presenti nei rispettivi parlamenti nazionali.
È il caso della Gran Bretagna, patria del modello anglosassone idolatrato come bipolare o meglio ancora bipartitico. Mai stato. E le ultime elezioni lo hanno smentito clamorosamente. Certo, storicamente le due forze maggiori sono i Conservatori e i Laburisti, chi lo discute, ma da sempre esistono altre forze importanti che hanno pesato anche quando il sistema maggioritario ha impedito loro di entrare in Parlamento. È il caso dei Liberal-Democratici, che hanno sempre raccolto consensi a due cifre, e che nonostante ogni avversità istituzionale siedono ora nel governo di coalizione (sì, di coalizione) cui hanno costretto i conservatori. A maggio il partito di Clegg è stato scelto dal 23% degli elettori ed è risultato decisivo, anche se un po’ meno delle attese, e tra le sue richieste incontestabili ha posto la riforma della legge elettorale in senso proporzionale. Sacrilegio nel tempio del bipartitismo! D’altro canto forse bisogna ricordare che anche prima dei liberali la Camera dei Rappresentanti era “contaminata” dalla presenza di altri partiti minori, spesso decisivi per le maggioranze. Nell’attuale Parlamento di Londra ad esempio siedono anche sei eletti del Partito Nazionale Scozzese, cinque del Sinn Fein, 8 del Partito Democratico Unionista, 3 del Plaid Cymru, 3 del Partito Social Democratico e Laburista, un Verde e persino un indipendente. A queste realtà vanno aggiunte altre forze politiche divenute importanti, a volte rappresentante a Strasburgo, ma assenti da Westminster: il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (che ha comunque superato il 3%), il Partito Nazionale Britannico (al 2%) e il Partito Unionista dell’Ulster. Un certo affollamento per una realtà dove il dogma prevede che esistano solo due partiti.
Per restare nelle isole, l’Oireachtas, il parlamento bicamerale irlandese formato da Seanad Eireann e Dàil Eireann, è eletto col sistema del voto singolo trasferibile (lo stesso di Malta), che associa la scelta ordinale dei candidati ad un'alta proporzionalità. I principali partiti sono tre: il Fianna Fàil, il Fine Gael e il Partito Laburista. A questi sugli scranni della Camera si affiancano il Sinn Féin, i Verdi e i Socialisti. Attualmente poi 4 deputati sono classificati come indipendenti.
La situazione della mitica Scandinavia non è tanto diversa: molti partiti, governi di coalizione, addirittura maggioranze costrette a reggersi su appoggi esterni. È fresco nella memoria il caso della Svezia, dove per la prima volta la destra populista è entrata in Parlamento e ha costretto il premier di centrodestra a un governo di minoranza, dopo che sono falliti i tentativi – legittimi e non criticati – di portare i verdi dalla coalizione d’opposizione a quella di governo. D’altro canto, in Svezia vige una legge elettorale proporzionale. Con i nuovi arrivati Democratici di Svezia (decisivi per l’elezione del presidente della Camera), i partiti che hanno superato lo sbarramento del 4% e sono presenti nel Parlamento monocamerale di Stoccolma sono ora otto, con i tradizionali Partito Socialdemocratico Svedese, Partito Moderato Unito, Verdi, Partito Popolare Liberale, Partito di Centro, Democratici Cristiani, Partito della Sinistra. Non molto diversa la situazione in Finlandia, con un Parlamento unicamerale eletto proporzionalmente. I 200 deputati sono eletti nei 16 distretti. Il primo ministro è nominato dal Presidente della Repubblica, dopo le consultazioni parlamentari. Nelle elezioni del 2007 i tre principali partiti sono arrivati molto vicini gli uni agli altri, il Partito di Centro, il Partito di Coalizione Nazionale, il Partito Socialdemocratico Finlandese. Quasi al 9% anche l’Alleanza di Sinistra e la Lega Verde , mentre hanno conquistato seggi pure il Partito Popolare Svedese, i Cristiani Democratici, i Veri Finlandesi e un movimento minore. Anche qui, proporzionale, almeno otto partiti, più poli. Anche in Danimarca governo di coalizione, con appoggio esterno. Il Folketing è eletto proporzionalmente con sbarramento al 2%, e ha il potere di sfiduciare il governo e di cambiarlo. Alle politiche del 2007 hanno partecipato 9 partiti principali più i rappresentanti di Groenlandia e Faroer e altri minori, e otto hanno conquistato rappresentanza parlamentare. Insomma, questi scandinavi dovrebbero proprio vergognarsi: multipartitismo, sistema proporzionale, governi di coalizione. Una eresia.
Al di là del Mar Baltico stessa solfa. In Lituania il sistema elettorale prevede metà eletti in collegio e metà col proporzionale con sbarramento al 5%, cosa che nel 2008 ha fatto entrare in Parlamento 10 partiti che hanno dato vita a un governo di coalizione. Anche la Lettonia è una Repubblica Parlamentare, con proporzionale e sbarramento del 5%, superato lo scorso due ottobre da 5 coalizioni a loro volta formate da più partiti, con molto rilevanti variazioni del numero dei seggi. Una delle alleanze che è entrata alla Camera era assente nel 2006, mentre non ha superato la soglia il partito Per i Diritti Umani nella Lettonia Unita che aveva sei deputati nella scorsa legislatura. Oltre il 4% dei voti è andato ad altri schieramenti: in queste giovani democrazie la variabilità dei partiti è ancora frequente. Il parlamento è sovrano anche in Estonia, e dal 2007 vi siedono sei partiti, mentre altri due movimenti maggiori non hanno conquistato seggi. Ovviamente il governo è di coalizione, nessuno avendo raggiunto la maggioranza assoluta.
Veniamo ora al cuore dell’Europa, forse con una ricerca altrettanto puntigliosa almeno lì troveremo questo mitico sistema bipolare. Proviamo col Benelux, che della Ue è un cuore pulsante. Dunque, il Belgio no, non è un caso che fa per noi. Macché, meglio guardar proprio da un’altra parte: in Belgio persino i partiti di livello internazionale come popolari e socialisti sono divisi in due, una formazione fiamminga e una vallone. Per non parlare dei movimenti germanofoni e della miriade di altri partiti a metà tra il localismo e le idealità globali. Facendo un conto sommario, attualmente si possono registrare oltre venti partiti politici, di cui dodici siedono alla Camera. Che dire dell’Olanda? Beh, si ricorderà il dibattito provocato dalle forze populiste accusate di xenofobia, prima con Pim Fortuyn, ora con Geert Wilders divenuto il terzo partito d’Olanda, il cui appoggio esterno è stato determinante per formare il governo liberal-democristiano dopo mesi di inconcludenza. Nel Parlamento eletto quest’anno i partiti sono dieci, e altri ancora sono rimasti fuori. Ma forse almeno nel piccolo Lussemburgo ci sarà questa semplificazione del sistema a due partiti o almeno due blocchi? Su duecentomila elettori, i partiti mandati alla Camera sono sei, a coprire tutte le tradizioni classiche (popolari, socialisti, verdi, sinistra).
Della Germania e della Francia è quasi inutile parlare. In Germania di recente la Corte Costituzionale ha respinto alcune modifiche alla legge elettorale perché non garantivano a sufficienza il criterio fondante della proporzionalità. La Germania è uno dei Paesi politicamente più stabili e dal dopoguerra ha avuto appena un pugno di Cancellieri. Eppure ha provato quasi tutte le coalizioni possibili (la stampa tedesca si diverte a dare loro soprannomi secondo l’accostamento dei colori), coalizioni formate dopo il risultato elettorale in base alle possibilità che gli elettori sono andati a creare. Sono ormai almeno sei i partiti storici tedeschi, a partire dai democristiani che però in realtà sono divisi tra la CDU nazionale e la CSU bavarese. Poi ci sono i socialdemocratici, la sinistra (Linke) nata dalla fusione dei comunisti con i fuoriusciti della SPD, i Verdi, i Liberali. Esistono poi altri partiti e fanno parlare di sé soprattutto quelli di destra, ma per ora non sono mai riusciti a valicare la soglia di sbarramento. La governabilità è garantita dalla sfiducia costruttiva e in diversi momenti importanti della Germania si è dato vita a una Grosse Koalition tra popolari e socialisti, senza scandali e lasciandosi serenamente per le elezioni successive. Un sistema simile vige nella cugina Austria, nella cui Dieta nazionale trovano spazio cinque partiti, tra cui un paio di movimenti populisti diventati importanti da Haider in poi. Anche qui non è un’eresia la Grande coalizione tra socialisti e democristiani, al governo dal 2006. Dicevamo della Francia dalle grandi personalità presidenziali. Ebbene anche qui, come è noto, nonostante i personalismi e un sistema elettorale a doppio turno che favorisce i partiti maggiori non c’è modo di ridurre a due le realtà politiche. Nonostante la relativamente recente fusione di diverse forze del centro-destra nell’Ump, all’Assemblea Nazionale sono rappresentati numerosi partiti politici. Tre per la maggioranza, quattro per l’opposizione di sinistra, uno per l’opposizione di centro. Resta inoltre fuori il Fronte nazionale. Due seggi sono appannaggio di “altre liste”, mentre indipendenti e movimenti minori hanno 9 deputati che appoggiano la maggioranza e 15 schierati con la minoranza. Il ballottaggio presidenziale e la forte connotazione dei leader è solo una maschera che non può cancellare la pluralità politica del sistema francese.
Non è poi nel Mediterraneo che possiamo andare a cercare la chimera del bipartitismo anglosassone, anche se poi si finisce per scoprire che la prevalenza di due blocchi culturali è più facile dove non ci sono forzature. È il caso spagnolo e quello greco, ad esempio. In Spagna il sistema politico è basato sul multipartitismo anche se di fatto la contrapposizione storica è tra Popolari e Socialisti, ma non si governa senza i tanti partiti minori, specie quelli di stampo localistico. Nell’attuale Congresso sono rappresentati dieci partiti, di cui almeno cinque regionalistici. I Socialisti di Zapatero governano ma da soli non raggiungono la maggioranza dei seggi. Anche in Portogallo la scena gira intorno a due partiti prevalenti, il Partito Socialista e il Partito Social-Democratico (che è di centro-destra), ma hanno più di 15 deputati a testa anche il Partito Popolare, il Blocco di Sinistra e la Coalizione Democratica Unitaria. Anche qui, senza i partiti minori non si governa. È semmai in Grecia che il sistema elettorale favorisce la formazione di governi omogenei, grazie a un complesso sistema che è a rappresentanza proporzionale, ma poi premia il primo partito e penalizza il secondo. In questo modo nella giovane democrazia si sono alternati al governo i socialisti del Pasok e i rivali di Nea Demokratia, senza che questo escluda dall’azione politica altri movimenti di varia ispirazione, dagli ortodossi ai comunisti ai verdi, una decina di partiti alcuni dei quali presenti ad Atene (oggi tre per una cinquantina di seggi) o Strasburgo. A Cipro il governo è di coalizione fra tre partiti di sinistra, mentre all’opposizione si collocano il Raggruppamento Democratico, i Verdi ed Euro-Ko.
Per chiudere il discorso dell’Unione Europea, restano i Paesi dell’est, i quali troppo a lungo si sono trovati con un partito solo perché ora possano accontentarsi di due. In nessuna di queste realtà vige una forma di bipolarismo stretto. Non certo in Polonia, dove il governo è arrivato ad essere formato da una coalizione di sette partiti. Al voto del 2007 i movimenti si sono presentati alle urne in alleanze elettorali quattro delle quali sono entrate in Parlamento. In Ungheria esiste una quota uninominale e una proporzionale, e i partiti che hanno conquistato seggi ad aprile sono quattro più un indipendente, con almeno un quinto partito importante tra quelli rimasti fuori. In Bulgaria per entrare all’Assemblea Nazionale i partiti o le coalizioni devono superare il 4% con un sistema proporzionale in collegi plurinominali. A luglio si sono presentati otto partiti o cartelli di partiti (i partiti sono di più) più alcuni minori, e in Parlamento sono ora presenti sei gruppi politici. Anche la Romania presenta un sistema con numerosi partiti politici che si devono accordare per formare governi di coalizione, nonostante il sistema di collegi in cui i partiti devono superare il 50%. I cartelli elettorali (a volte composti da più partiti) che hanno superato il voto del 2008 sono cinque, con un altro paio di movimenti importanti che però non hanno ottenuto parlamentari. Nella Repubblica Ceca la scena politica è stata dominata da quattro grandi partiti, circondati da partiti minori. Ma nelle elezioni del 2010 hanno fatto il loro debutto due nuovi partiti che sono riusciti a conquistare il terzo e il quinto posto. In Slovacchia i deputati sono eletti con sistema proporzionale con sbarramento del 5%, che nel 2010 è stato superato da sei dei numerosi partiti presentatisi, peraltro con la maggioranza relativa andata ai socialdemocratici e la maggioranza complessiva andata a formazioni di centro-destra. Vicino a noi, in Slovenia, vige un sistema elettorale misto maggioritario-proporzionale che ha portato alla Camera nove partiti più i rappresentanti di italiani e ungheresi.
E così, Italia a parte, abbiamo fatto il giro di tutta l’Unione Europea. Di sistemi ingessati su due fazioni non abbiamo trovato traccia.
Osvaldo Baldacci
Nessun commento:
Posta un commento