martedì 28 febbraio 2012

ICI e scuole cattoliche: ci sarà un motivo perché si chiamano paritarie?

Le scuole che saranno esenti dall’Imu saranno quelle che “svolgono la propria attività con modalità concretamente ed effettivamente non commerciali”. Vale a dire, per provare a spiegare nel concreto e in modo semplice, quelle che investiranno l’avanzo di bilancio, cioè l’utile, per migliorare l’offerta scolastica, il servizio di istruzione. Quindi non a fine di lucro. Una norma che verrà stabilita per legge. Lo ha spiegato ieri il premier Mario Monti in commissione Industria del Senato. Questa, ha detto Monti, è la risposta “chiara e inequivoca”. La materia dell’Ici sulla Chiesa “non era facile, forse non era stata affrontata per molti anni. Spero di essere riuscito a definire questa delicata materia in modo che la riponga, in futuro, al riparo da qualsiasi polemica su una interpretazione distorta”. Da parte del Governo e delle istituzioni c’è “la piena e convinta determinazione a considerare il problema dell’esatta incidenza” dell’Imu sulle Chiesta “senza
pregiudizi o approcci ideologici di qualsiasi derivazione”.
E sull’approccio ideologico alla tematica occorre riflettere per un Paese civile. Servizio pubblico. Lo Stato lo deve assicurare. E mantenere. Per questo servono le tasse. Ma se le tasse vanno a colpire il servizio pubblico danneggiandolo, diminuendone i servizi e accrescendo le spese dello Stato tanto che i denari da spendere dopo un provvedimento finanziario sono molto superiori a quelli che da quel provvedimento si intende recuperare, allora è un non-senso. E questo cortocircuito è quello che rischiava di diventare protagonista della nuova situazione sull’applicabilità dell’IMU ai beni - diciamo così ma vedremo che è inesatto - “religiosi”. La questione descritta dai mass media come quella dell’ICI della Chiesa è (potrebbe essere, ma speriamo che non lo sarà) in realtà una questione ben più grave, perché riguarda il sistema dell’educazione, è un attacco al sistema dell’istruzione. Vediamo perché. Primo: la Chiesa l’Ici la paga eccome. Basti pensare che il secondo e terzo contribuente a Roma sono l’APSA e Propaganda Fide. Inoltre su tutta la galassia delle esenzioni quella riferibile al mondo cattolico è solo una parte, che diventa una parte minima se si fa riferimento alle realtà ecclesiali. Questa era già la situazione a prima delle ultime polemiche, quelle sì ancora ideologiche. Ci poteva essere qualche abuso? Certo, come in tutte le attività umane, ma la Conferenza Episcopale si è sempre schierata dalla parte dello Stato e del pagamento delle tasse quando dovute, invitando a condurre accertamenti verso eventuali scorrettezze da sanzionare. Esisteva però anche una parte di potenziali equivoci, dovuta a quella famosa formula “non esclusivamente” che da ogni parte si è riconosciuto meritevole di ulteriori chiarimenti. E a quei chiarimenti il governo ha lavorato. Quali saranno gli effetti concreti e i confini della misura è ancora un po’ da verificare, visto che il provvedimento è in corso d’opera. Però qualche indicazione inizia a emergere con maggior chiarezza. E qui è arrivato il momento di entrare nello specifico. Con un rapido accenno alla questione del no profit: assurdo tassare le realtà sociali e benefiche, l’esempio classico è quello delle mense per i poveri. Ma veniamo al nodo delle scuole. Non ci stupisce scoprire che in questi giorni ci sia stato, più da parte della stampa e dei soliti noti che dal governo, un attacco ideologico e pregiudiziale. Un attacco ricco di disinformazione, controsensi e irrazionalità, come del resto accade da decenni in tutte le manifestazioni contro la scuola cattolica. Bisogna intanto ricordare che cattoliche sono meno della metà delle scuole private, e che per quanto riguarda almeno le scuole cattoliche non esiste più il concetto di scuola privata, ma di servizio pubblico di iniziativa privata, cioè le scuole paritarie, che fanno parte integrante del sistema nazionale di istruzione. Per deideologizzare la vicenda bisognerebbe tener sempre presenti alcuni dati ufficiali e sempre palesemente a disposizione di tutti, ma sempre tenacemente ignorati in questi ragionamenti: le scuole paritarie del servizio pubblico d’istruzione fanno scuola a un milione di ragazzi, ma cosa ancor più importante per questo tipo di ragionamento, a fronte dei tanto avversati 500 milioni scarsi di finanziamento che lo Stato offre, le scuole paritarie fanno risparmiare annualmente allo Stato 6 miliardi e 250 milioni. Senza contare che le scuole pubbliche già costano allo Stato 44 miliardi. Ecco, 6 miliardi e rotti risparmiati a fronte di pochi, pochissimi spiccioli racimolati con l’IMU: ha senso? E se l’imposizione ideologica dell’Imu voluta da alcuni fosse così pesante per le scuole paritarie da portare – come già ventilato da più parti – alla loro chiusura, quale vantaggio ne avrebbe lo Stato, chiamato a tirar fuori strutture e servizi e più di sei miliardi per fornire l’obbligatorio servizio dell’istruzione a una enorme quantità di studenti italiani?
Tutto questo quindi fuori di ogni ideologia ma solo su calcoli economici. Senza scadere nell’ideologia si potrebbe poi entrare nel merito della qualità del servizio. La critica alle scuole paritarie come scuole dei ricchi è totalmente infondata e da rovesciare: basta fare in modo non di penalizzarle ma al contrario di favorire la partecipazione degli studenti a quelle scuole. Il tutto inserito in un contesto che garantisce costituzionalmente la libertà di educazione. E richiamando la fondamentale centralità dell’educazione e dell’istruzione: non è solo il Papa Benedetto XVI a richiamare costantemente la gravità dell’emergenza educativa, nella formazione di persone e cittadini prima ancora che di cristiani. È anche la società a lamentare la crisi educativa che investe una scuola che non dà quanto dovrebbe e mina così il futuro: nella scuola bisogna investire di più e meglio, non danneggiare pregiudizialmente le realtà che funzionano meglio.

martedì 21 febbraio 2012

Famiglia cuore della società

Cosa può fare la politica per le famiglie italiane? Ha ancora un senso parlare di famiglia? Perché in un momento di crisi, tagli e sacrifici bisognerebbe avere un occhio di riguardo per la famiglia? È solo un discorso ideologico cattolico? Se ne è parlato ieri a Roma al Convegno “Famiglia e Politica: un binomio possibile?”, organizzato dall’on. Luisa Santolini, aperto dal ministro Andrea Riccardi e al quale sono intervenuti tra gli altri Rocco Buttiglione, Pierferdinando Casini, Francesco Belletti e Stefano Zamagni. E la risposta alla domanda sembra ovvia in certi ambienti, ma in realtà è ormai da rispiegare in gran parte della società e degli ambienti politici anestetizzati rispetto a questo tema. La risposta dice che la famiglia è laicamente il fulcro della società, è l’elemento costitutivo del nostro mondo, quello che crea rete sociale, capitale sociale, relazioni, la famiglia rappresenta il futuro per mezzo dei figli. E tutto questo non solo in termini morali, astratti, fideistici. No. Stiamo parlando di concreti vantaggi persino economici per tutta la società italiana. È sulla famiglia che si regge l’economia italiana. La famiglia è l’unico ammortizzatore sociale realmente funzionante. Ed è il miglior centro assistenziale e anche sanitario, costretta a farsi carico di tanti, troppi enormi problemi, sostenendo costi per il sistema sanitario che poi non rende quello che prende. Di questi giorni poi sono indagini che mostrano come in Italia il lavoro si trovi soprattutto attraverso conoscenze familiari, altro che agenzie di collocamento. Ma la realtà è ancora un po’ più profonda. I figli sono l’unica garanzia del funzionamento del futuro sistema previdenziale: la crisi del sistema delle pensioni è legata anche alla crisi demografica. E l’educazione dei figli è il punto centrale della costruzione dei cittadini di domani, anche questo non solo con importanti risvolti civici, ma anche con risvolti economici: infatti quanti costi deve sostenere la comunità in conseguenza di cattivi cittadini, di problemi di ogni genere che potrebbero essere limitati se la lotta al disaggio e al disadattamento potesse davvero cominciare in famiglia. Quale differenza di livello culturale e quindi anche lavorativo c’è tra un paese che si prende cura dei propri figli, li fa studiare (davvero, non di facciata), li motiva, e un Paese dove questo non avviene, anche perché le famiglie non hanno la possibilità (a sua volta culturale, economica, sociale) di far progredire i propri figli. Le statistiche dicono che sta crescendo una generazione di giovani disoccupati, e tra questi troppi sono quelli che né lavorano né studiano e si formano. Quanto in questo c’entra anche l’abbandono in cui la famiglia è relegata? Ecco gli infiniti motivi laici per cui bisogna ripartire dalla famiglia, e per i quali la politica ha il dovere di agire concretamente in favore della famiglia. Non si tratta di piccoli provvedimenti di facciata (meglio cominciare da qualcosa che da niente), si tratta di portare avanti una rivoluzione che metta la famiglia al centro delle politiche sociali del governo. Prima di tutto delle politiche fiscali, col quoziente familiare per i figli, ma andando ben oltre considerando in toto il nucleo familiare come referente dello Stato e su questo impostando tutto. Ci sarebbero anche grandi risparmi, basti pensare a una sanità più efficiente e più calda e sicuramente meno cara se le famiglie fossero aiutate direttamente ad affrontare tante questioni (le malattie, gli anziani, anche i bambini) invece che farli prendere in caro a un servizio sanitario cui costano molto di più e dove trovano inevitabilmente meno efficienza e infinitamente meno calore. Lo stesso si può dire per l’istruzione: checché se ne dica, le scuole paritarie fanno risparmiare allo Stato un sacco di soldi. Ecco, questi temi (è uno degli argomenti del convegno di ieri cui erano presenti esponenti importanti di varie aree politiche come Beppe Fioroni) sono un altro importante aspetto politico che può unire i moderati italiani al di là delle scorie delle faziosità che ormai ci stiamo lasciando alle spalle.

giovedì 16 febbraio 2012

Vent'anni fa "mani pulite", storia della corruzione nei secoli

Tutto ha un prezzo. Sarà triste, ma la storia insegna che tutto o quasi si può comprare con bustarelle e mazzette. Dal trono imperiale al soglio pontificio, da un regno alla salvezza fino persino alla benevolenza degli dei. La corruzione è storia antica, molto preoccupante quando riguarda il presente, curiosa e a volte persino comica quando si riferisce a racconti del passato.
Si potrebbe fare una classifica dei più clamorosi episodi di corruzione nella storia. Ci sono davvero episodi da record, proviamo a citarne qualcuno.
Mesopotamia. Nel regno di Mitanni (XVI-XIV a.C., al confine tra gli attuali Iraq e Turchia) c’è un documento processuale contro un “sindaco” della città di Nuzi che, approfittando del suo ruolo, si è reso responsabile di tutta una serie di abusi. “Dalla lettura del testo – racconta il prof. Mario Liverani - risulta evidente che la pratica di dare al pubblico ufficiale una “mancia” affinché si prenda cura del caso in questione era non solo abituale ma anche accettata come legittima; l’illegittimità sta solo nel fatto che il pubblico ufficiale, dopo aver accettato la mancia, non ricambia facendo il favore previsto”. Credo che questo episodio resti ancora insuperato.
Secondo le leggi babilonesi di cui è testimonianza il codice di Hammurabi i giudici erano costretti a depositare le sentenze in involucri sigillati così che fosse sempre possibile controllarle nel caso in cui cospicui donativi intendessero far cambiare idea al magistrato in un secondo momento. Hammurabi prescrisse di tenere lontano dal mestiere il giudice che avesse mutato un verdetto già “passato in giudicato”. Nell’inno al dio del sole e della giustizia Shamash si recita: "A colui che riceve un offerta che perverte farai subire una punizione".  
Egitto.Il pover’uomo di Nippur” dalla Mesopotamia e “L’oasita eloquente” dall’Egitto, intorno al 2000 a.C., raccontano storie parallele. In entrambi i casi un funzionario di provincia ha compiuto un evidente arbitrio a danno di un povero contadino e in entrambi i casi il colpevole trova la compatta solidarietà della classe dei burocrati: solo rivolgendosi con grande fatica al re in persona i due protagonisti ottengono giustizia. In riva al Nilo le pene per i funzionari disonesti erano pesanti: rimozione dalla carica, taglio del naso e/o delle orecchie. Eppure nella stessa epoca un saggio poteva lamentarsi nelle sue “Ammonizioni”: “Chi non aveva un pane ora ha granai, ma ciò di cui son pieni i suoi magazzini sono beni di altri”. Sullo stesso tono le confessioni che ci ha lasciato un nobile egiziano in procinto di suicidarsi, forse perché vittima di abusi oppure perché accusato proprio di corruzione: “I cuori sono avidi, ognuno prende le cose del compagno”.
Israele. Anche nella Bibbia la corruzione è citata esplicitamente più volte, ed è condannata dalle leggi: Esodo 23,6-8 “Non farai deviare il giudizio del povero, che si rivolge a te nel suo processo. Ti terrai lontano da parola menzognera. Non far morire l’innocente e il giusto, perché io non assolvo il colpevole. Non accetterai doni, perché il dono acceca chi ha gli occhi aperti e perverte anche le parole dei giusti”; Deuteronomio 16,19 “Non farai violenza al diritto, non avrai riguardi personali e non accetterai regali, perché il regalo acceca gli occhi dei saggi e corrompe le parole dei giusti”.
In Mesopotamia, Egitto, Grecia e Roma le cariche pubbliche venivano spesso acquistate, e a volte affittate o subaffittate, e così i funzionari le usavano per rifarsi, per arricchirsi, compiendo ogni sorta di abuso.
India. Il problema della corruzione non ha confini. Ci si è battuto contro Confucio in Cina, i cui insegnamenti erano tutti dedicati a creare i buoni funzionari, mentre nel IV secolo a.C. il bramino Kautilya, noto anche come Chanakya, e ministro del re indiano Chandragupta Maurya, scrisse nell’Arthashastra che la la prova della disonestà finanziaria di un pubblico ufficiale è “facile da reperire tanto quanto è facile scoprire quant’acqua può bere un pesce che nuota liberamente nell’acqua”. Allo stesso modo, afferma l’Arthasastra, la volontà di “non assaggiare il miele posto sulla lingua è difficile quanto maneggiare i soldi del re senza assaggiarne almeno una piccola parte”.
Grecia. Varcando le onde del Mediterraneo, in Grecia persino i più grandi eroi caddero per accuse di corruzione, certo forse anche strumentali, ma forse non senza un fondo di attendibilità. Fu il caso di vincitori dei persiani come Milziade che morì in carcere per non aver potuto pagare l’enorme multa inflittagli per l’accusa di tradimento perché, pur potendo espugnare Paro, se ne era andato senza portare a termine l’impresa, in quanto corrotto dal re (fonte Cornelio Nepote). E  come Temistocle (accusato degli storici Timocreonte, Erodoto e Plutarco) esiliato da Atene proprio per corruzione, e non per un solo episodio: secondo l’accusa accettò soldi per accordare una particolare protezione agli eubei durante una battaglia con i persiani, mentre in altre occasioni estorse denaro agli andri e agli abitanti di Paro e di Caristo. Esilio anche per il leader politico Cimone figlio di Milziade, accusato di essere stato corrotto da Alessandro I il Macedone al fine di evitare una spedizione punitiva ateniese contro di lui. Nel secolo successivo i famosi oratori Isocrate e Demostene si trovarono implicati in processi per corruzione che fecero epoca. Demostene fu accusato di essersi appropriato di parte del tesoro di Alessandro Magno. A Sparta la lotta contro la corruzione era ferrea e preventiva (la costituzione di Licurgo rifiutava le monete d’oro e d’argento) ma forse la città non ne fu esente: certamente però ne fu vittima il re Agesilao che mentre combatteva vittoriosamente contro i Persiani in Cappadocia fu sconfitto da 30.000 arcieri, quelli raffigurati sulle 30.000 monete d’oro che il re di Persia usò per corrompere le città greche e far loro dichiarare guerra a Sparta.
Roma come è noto non era da meno. Il primo episodio risale addirittura ai più antichi tempi leggendari: la giovane Tarpea vendette ai Sabini l’acropoli cittadina del Campidoglio e le vite dei soldati che la difendevano. Alcuni romani furono famosi per la loro incorruttibilità, e questo fa da cartina di tornasole sulla moralità degli altri. I romani erano talmente specialisti che corrompevano persino gli dei: era il rito della “evocatio deorum”, con la quale i generali romani convincevano a suon di promesse gli dei delle città nemiche a passare dalla loro parte, a permettere la sconfitta delle città loro sedi in cambio di sedi più maestose a Roma. Caso esemplare la preghiera di Camillo a Giunone perché abbandoni Veio prima della puntuale caduta.
Gli amministratori delle province furono spesso famosi soprattutto per ruberie e intrallazzi e ognuno tornava appesantito d’oro dalla provincia di competenza. Esempio famoso è il processo intentato da Cicerone al propretore Verre che aveva letteralmente saccheggiato la Sicilia. Tra le questioni chiave della politica romana c’era sempre quella della scelta dei giudici dei tribunali sulla corruzione (de repetundis), perché senatori e cavalieri volevano ciascuno giudicarsi (e assolversi) da sé. C’era poi il sistema dei pubblicani, che appaltavano la riscossione delle tasse e garantendo una cifra allo Stato potevano poi giocare sui margini. Le grandi famiglie, poi, compravano e vendevano voti e appaltavano le cariche pubbliche. Sallustio poi ci ricorda come il piccolo re nordafricano Giugurta si potesse permettere di uscire da Roma gridando “Città in vendita” avendo fatto l’esperienza di comprare l’uno dopo l’altro i generali e i senatori che l’avrebbero dovuto contrastare. Vent’anni prima Caio Gracco denunciava alla plebe l’inganno del Senato: mentre si discuteva del destino di un territorio asiatico (se assegnarlo a un re confinante o lasciarlo libero), i senatori non parlavano per il bene comune ma in base a chi li aveva comprati, se l’uno o l’altro pretendente o persino tutti e due. Catone subì 44 processi per corruzione, e anche Scipione l’Africano fu messo sotto accusa.
Ma forse l’episodio romano più clamoroso fu quando venne messo all’asta il trono imperiale. Premesso che donativi di generali e neo imperatori ai loro soldati e ai pretoriani erano cosa comune, e persino Marco Aurelio e Lucio Vero quando erano ascesi al trono avevano elargito 20 mila sesterzi, non si raggiunse mai il livello del 193 d.C. Secondo Dione Cassio “Didio Giuliano quando seppe della morte di Pertinace si precipitò alla caserma dei pretoriani e. fermatosi al cancello, offrì ai soldati una somma per comprare il trono dell’impero. Allora fu concluso l’affare più vergognoso e infame della storia di Roma, quando, come se si fosse trattato di un mercato o di una sala delle aste, tanto la città quanto l’impero furono messi in vendita all’incanto. I venditori erano quelli che poco prima avevano massacrato il proprio imperatore; gli acquirenti erano Sulpiciano e Didio Giuliano, che cercavano di superarsi a vicenda, uno dall’interno, l’altro dall’esterno della caserma. Le offerte andarono man mano aumentando, fino a raggiungere 20 mila sesterzi per soldato. Alcuni soldati andavano da Giuliano per dirgli ‘Sulpiciano offre tanto; quanto offri di più?’, poi correvano da Sulpiciano: ‘Giuliano promette tanto; tu che offri di più?’. Sulpiciano avrebbe potuto averla vinta, in quanto stava dentro ed era prefetto della città, e fu anche il primo a indicare la cifra di 20 mila; senonché Giuliano aumentò la propria offerta di 5 mila sesterzi in una sola volta, urlando la cifra e indicandola anche con le dita della mano. Allora i soldati, attratti dall’enormità della somma e temendo contemporaneamente che Sulpiciano volesse vendicare suo genero Pertinace (idea che Giuliano aveva fatto loro venire in mente) accolsero lo stesso Giuliano all’interno della loro caserma e lo proclamarono imperatore”.
Cristianesimo. Nell’antica Roma la corruzione ha toccato anche i primi cristiani: durante le persecuzioni, se molti divennero martiri (tra loro Papa Fabiano) e altri si piegarono alle imposizioni imperiali, altri si arrangiarono e acquistarono da funzionari corrotti il libellus che attestava che avevano svolto i riti pagani richiesti.
Ma anche nella storia dei Papi non mancano episodi di corruzione, anzi. E non parliamo solo di quella corruzione morale che in certi secoli ha raggiunto tali livelli da far capire che la sopravvivenza della Chiesa e dell’ortodossia nonostante tutto sono la prova della “tutela” dello Spirito Santo. Un caso davvero eclatante fu quello di Benedetto IX, che in cambio di 650 chili d’oro nel 1045 abdicò da Papa in favore del suo corruttore divenuto Gregorio VI.
Un altro episodio che spicca sui tanti altri riguarda l’elezione di Sergio I nel 687. Alla morte di papa Conone, per essere eletto l’arcidiacono Pasquale si dette da fare presso l’esarca bizantino per ottenere la successione dietro la concreta promessa di cento libbre d’oro. Giovanni Platina accettò l’offerta e diede ordine ai magistrati imperiali che influenzavano il popolo di far eleggere Pasquale appena Conone fosse morto. Ma l’elezione non andò a buon fine e venne scelto Sergio I. L’esarca fece buon viso a cattivo gioco e abbandonò Pasquale confermando Sergio, ma pretese da lui le cento libbre già promessegli dal rivale.
Nel 532-533 l’ultimo decreto (Senatus Consultum) noto del Senato di Roma fu diretto proprio contro la simonia nelle elezioni papali e fu confermato dal re goto Atalarico. Quest'ultimo ordinò che il decreto fosse inciso sul marmo e fosse collocato nell’atrio di San Pietro. A sua volta però il re Atalarico, per “comporre comporre eventuali dispute tra laicato e clero nell’elezione del Papa”, stanziò a disposizione dei dignitari regi 3.000 solidi con cui procurare suffragi al candidato da essi prescelto. Decreto comunque di scarsa efficacia se poco dopo, nel 537, il futuro Papa Vigilio corruppe il famoso generale bizantino Belisario non solo per essere eletto ma addirittura per fargli deporre con un’azione di forza il legittimo Papa Silverio. L’azione andò in porto, anche se in seguito entrambi mostrarono pentimento per il gesto.
Medioevo. Più volte poi nel Medioevo il nuovo senato romano dovette di nuovo formalmente vietare “di trattare la successione del Papa quando c’è ancora quello vivente e di accettare doni e denaro per appoggiare un candidato al pontificato”. Furono moltissimi i processi per simonia. Anche Dante dedicò una regione del suo inferno alla simonia, e ancor più spazio riservò ai barattieri, nome con cui si indicavano appunto i funzionari corrotti, la cui bolgia è descritta nei canti 21 e 22 dell’Inferno. Certo, a Roma antica come nelle beghe ecclesiastiche come nel medioevo dantesco la corruzione era tanto diffusa che non sempre siamo certi della veridicità delle accuse, usate facilmente in modo strumentale a fini di delegittimazione politica. Resta il fatto che lo stesso fustigatore Dante fu accusato di corruzione, ed è questo il motivo per cui fu esiliato da Firenze.
Francia. Ma nessun episodio della storia è esente da questa piaga. I furori purificatori della Rivoluzione Francese non mancarono certo di episodi di corruzione. Non è calcolabile quanti nobili e altri si salvarono dall’arresto e dalla ghigliottina grazie a una mancia alla persona giusta, né quanti riuscirono a fuggire in esilio “oliando” le guardie di frontiera. Ma Basti ricordare, all’opposto, due protagonisti indiscussi del periodo. Maximilian Robesbierre venne detto “l’incorruttibile”, e questo la dice lunga su cosa si doveva invece pensare di tutti gli altri. E infatti processato e condannato per corruzione fu anche George Jacques Danton, che forse fu ancor più dell’altro una figura chiave della Rivoluzione e i cui celebri discorsi ancora infiammano i difensori dei diritti. Fu ghigliottinato per rivalità politiche, certo, ma l’accusa, non campata in aria, era proprio quella di illecito arricchimento personale.
Italia. Per chiudere riavvicinandoci un po’ nel tempo, senza cadere nella cronaca relativamente recente a tutti nota come Tangentopoli, ricordiamo che la nascita della stessa Banca d’Italia deriva da una riforma seguita a un gigantesco scandalo di corruzione, quello noto come della Banca Romana che travolse la politica italiana di fine Ottocento. Prima del 1890 la Banca Romana, una delle sei autorizzate ad emettere moneta, per coprire le sue perdite a fronte dei 60.000.000 autorizzati, aveva emesso biglietti di banca per 113 milioni di lire, incluse banconote false per 40 milioni emesse in serie doppia. Per tutelare i suoi traffici aveva lautamente pagato politici, alcuni comprovati altri solo denunciati, compresi primi ministri come Crispi e Giolitti che se la cavò ma dovette dimettersi. 22 parlamentari di primo piano furono processati, e infine assolti per la sparizione di documenti. Secondo gli storici un po’ tutte le forze politiche e gli stessi magistrati furono d’accordo nell’evitare che lo scandalo finisse per travolgere il sistema italiano.

Verità e Cultura, by BXVI

Benedetto XVI: "La cultura nutrita dalla fede porta alla vera umanizzazione, mentre le false culture finiscono per condurre alla disumanizzazione: in Europa e in Africa ne abbiamo avuto tristi esempi. Quella della cultura deve essere quindi una costante preoccupazione che rientra nella azione pastorale, tenendo sempre ben presente che la luce del Vangelo si inserisce nel tessuto culturale elevandolo e facendone fecondare le ricchezze. La Chiesa rispetta ogni scoperta della verità, perché tutta la verità viene da Dio, ma sa che lo sguardo della fede fissato sul Cristo apre la mente e il cuore dell'uomo alla Verità Prima, che è Dio".

mercoledì 8 febbraio 2012

La riforma necessaria della legge elettorale 1 e 2

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La legge elettorale è un tema che poco appassiona i cittadini, anzi non li interessa proprio. Questo mantra spesso ripetuto è del tutto sbagliato, ed è servito come scusa all’immobilismo dei politici ma anche come scudo alla pigrizia dei giornalisti. Certo, i tecnicismi della legge elettorale non sono certo l’argomento preferito nei bar il lunedì mattina, ci mancherebbe. Ma l’interesse c’è, e soprattutto ci dovrebbe essere, e come spesso accade la scarsa attenzione civica a questo tema non è la causa dello scarso dibattito, ma succede esattamente il contrario: è chi decide l’agenda della comunicazione che ha tenuto il tema lontano dagli italiani. Chiariamoci: la legge elettorale in sé non può essere un tema di spettacolare intrattenimento e di scoppiettanti talk show. Però può e deve essere tema di approfondimento in quanto è un elemento base di quella educazione civica che in Italia è carente e che il circuito politico-mediatico non si dà certo pena di alimentare. Adesso è arrivato il momento di rovesciare questa pigra tendenza: ora i partiti in primis, e di conseguenza i mezzi di comunicazione, devono assumersi la responsabilità di affrontare questo tema con serietà e anche davanti ai cittadini. Per loro è una prova di maturità ma anche una prova di appello: la crisi della politica è strettamente legata alla crisi delle leggi elettorali. I partiti devono dimostrare di essere all’altezza della situazione, di essere utili al paese e alla democrazia, avendo la forza e il coraggio di affrontare quello che è il tema fondamentale. Perché sul senso della legge elettorale forse non c’è abbastanza chiarezza e consapevolezza. Da un lato bisogna sottolineare con forza che non esiste una legge elettorale perfetta, che tutte hanno pregi e difetti, che la legge elettorale da sola non basta a risolvere i problemi della politica. Una stessa buona legge elettorale può dare esiti funzionali diversi in situazioni diverse, vale a dire in paesi diversi o in periodi diversi nello stesso Paese. Se non esiste una legge elettorale migliore in assoluto, esistono però leggi elettorali peggiori che minano alla base il funzionamento della democrazia. Perché le leggi elettorali sono lo strumento (un mezzo, quindi, non un fine, ma un mezzo essenziale) attraverso cui si esprime e si trasforma in forza operativa la volontà popolare, e che crea le condizioni nelle quali la politica possa affrontare le necessità del Paese. Se la legge elettorale non dà risultati apprezzabili, diventa un ostacolo sulla via della democrazia stessa, e avvia un circolo vizioso di degenerazione e di degrado che non si sa dove possa portare. E questo è quanto è avvenuto fino ad ora, con i risultati che vediamo sia per quanto riguarda la cattiva gestione del Paese sia per quanto riguarda la crisi della politica. D’altro canto la legge elettorale serve a selezionare la classe dirigente: se la selezione avviene per cooptazione da parte di chi condivide interessi e ha per merito la fedeltà ai capi, quale tipo di rappresentanza del Paese e quale rapporto input-output possono esistere?
Quindi eccoci al punto: assodato che la legge elettorale è fondamentale nel senso che è alle fondamenta della vita democratica del Paese, e accertato che questo certamente interessa ai cittadini, sia perché l’hanno dimostrato in più occasioni (comprese le firme per i referendum, a prescindere dal contenuto delle singole proposte) sia perché sta comunque alla classe dirigente far capire ai cittadini l’importanza del tema, premesso questo ora tocca ai partiti mettersi a lavorare davvero. Un’altra porcata o peggio ancora l’inerzia non sarebbero ulteriormente accettabili. I partiti devono dimostrare di essere in grado di assumersi la responsabilità di disegnare l’architettura istituzionale del nostro Paese per il futuro. Riforme e legge elettorale devono essere fatte in funzione della democrazia italiana per le prossime generazioni. Guai a fare leggi elettorali fondate sull’interesse di parte, per escludere questo o quello, per consolidare posizioni di potere che magari scricchiolano sotto il peso dell’insoddisfazione popolare. Una legge elettorale fatta per interesse di parte non reggerebbe alla prova dei fatti ma al contrario alimenterebbe il grave disagio verso la politica e finirebbe per schiantare i suoi stessi promotori e con loro forse anche altre forme di vita democratica. Al contrario è proprio ai partiti attuali che spetta il compito di riscattarsi costruendo un modello che dia ai cittadini il senso dell’utilità della politica. Una legge che deve avere alcune caratteristiche immancabili. La legge elettorale scientificamente si deve equilibrare tra due esigenze: garantire una rappresentanza e permettere la governabilità. Quanto al primo tema è evidente che oltre al tema importante della rappresentanza delle realtà cultural-politche del Paese il primo tema è quello della rappresentanza dei parlamentari: cosa che vuol dire che tra gli elettori e gli eletti ci deve essere un filo diretto, gli eletti devono essere scelti dagli elettori cui devono rispondere. Un guasto evidente della politica e della democrazia recente è che gli eletti rispondevano ai capi cui dovevano il posto in lista, e non erano tenuti al rispetto nei confronti degli elettori. Il tema della governabilità è anch’esso delicato. Bisogna sgombrare il campo dal mito della maggioranza assoluta che così è priva di impedimenti per governare: al di là degli evidenti dubbi teorici, è la storia concreta che ha dimostrato che questo schema non funziona. Non sono coalizioni elettorali capaci di vincere ma incapaci di governare che garantiscono la forza di decidere, e neanche uno sproporzionato premio di maggioranza e una spinta al bipartitismo hanno dato buona prova di sé, mostrando come invece di garantire la governabilità hanno solo aumentato la forza di ricatto e il frazionismo. La coesione e la solidità possono derivare solo da leggi elettorali che aiutino l’omogeneità, l’assunzione di responsabilità e l’indipendenza dai ricatti degli estremi.
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Continuano i colloqui sulla riforma elettorale. È bene che i partiti cerchino di recuperare lo spirito di iniziativa su temi fondamentali come le riforme che restano al di fuori del recinto economico del governo tecnico. Quello della legge elettorale è un tema su cui battere, perché è innegabile che è alle fondamenta del sistema politico. Con la legge elettorale si seleziona la classe dirigente e si canalizza (favorendola e incoraggiandola, oppure no) la partecipazione elettorale. Più passa il tempo e più è evidente che i partiti devono quindi recuperare su questo terreno il loro protagonismo, ma senza peccare di velleitarismo ed egocentrismo. Una buona legge elettorale è tale anche se rispetta la situazione reale del paese, almeno nel periodo in cui deve essere applicata, e quindi regge alla prova dei fatti. Vale a dire che un tentativo di forzare una legge elettorale dentro schemi precostituiti porta inevitabilmente a una crisi di rigetto e a un peggioramento della situazione. Lo si è visto palesemente in questi anni con la forzatura astratta che voleva imporre il bipartitismo e un bipolarismo ingessato ed estremo: su questa teoria convergevano le astrattezze di molti intellettuali e le concretezze di una certa classe politica che mirava a rafforzare e cristallizzare il suo potere. Il tutto è naufragato miseramente contribuendo solo a portare l’Italia sempre più vicina al baratro. È stato il regno dell’ingovernabilità quando si predicava che la governabilità era l’unico obiettivo e che si sarebbe raggiunto grazie a maggioritario e/o premio di maggioranza. Ebbene, proprio questo ha portato il sistema al crash, creando coalizioni forzate che hanno raccattato di tutto per vincere le elezioni ma non sono state in grado di governare. Persino i partiti invece di diminuire hanno proliferato. In questo contesto è impensabile che PDL e PD tentino un colpo di mano per creare artificialmente un sistema che li ponga come unici protagonisti politici. Tanto più impossibile oggi che, ammesso che sopravvivano, questi due partiti non raggiungono insieme neanche il 50% dei consensi espressi, senza tener conto di un astensionismo altissimo che fa sì che in dati reali neanche un italiano su quattro si riconosce nei due partiti. Sarebbe invece ora, e forse sta accadendo, che PD e PDL dimostrino di essere classe dirigente assumendosi la responsabilità di fare il bene del Paese, di pensare riforme istituzionali ed elettorali che servano al paese e non a interessi di parte. In questo sono facilitati da una sponda che ha il pedigree perfetto: l’UDC da tempo predica la fine del bipartitismo fazioso e al contempo si è sempre detto favorevole a un sistema che favorisca e promuova (ma non forzi) le aggregazioni e limiti la dispersione del voto e la frammentazione partitica. Questo sistema si può realizzare in vari modi ed esistono vari modelli, ma certo quello tedesco è il più adatto e il più sperimentato. Altro punto chiave: il rapporto tra eletti ed elettori, la fine di un ridicolo parlamento di nominati e la possibilità di scegliere i parlamentari. Anche su questo l’UDC si batte da tempi non sospetti, e chiede il ritorno alla preferenza. PD e PDL continuano a ripetere un curioso controsenso: basta ai politici nominati (come se non fossero loro i primi responsabili di questa tendenza) ma no anche alle preferenze. Questo crea un cortocircuito. Però esistono un paio di sistemi che consentono di conciliare queste due esigenze. Uno è il maggioritario di collegio, che però ha già dato cattiva prova di sé e comunque crea quelle coalizioni ammucchiate che in Italia non funzionano. L’altro, guarda caso, è il sistema tedesco, proporzionale con collegi, che non esprime preferenze ma fa eleggere i deputati sulla base del maggior consenso ricevuto.